Oneohtrix Point Never R+7

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Una formula: chimica e magica insieme. L’ultimo disco di Lopatin conferma l’autore statunitense in un posto ben saldo del mio cuore, che ha battuto con gioia sul ritmo (pazzo all’inizio, non è stato facile) delle sue ultime alchimie sonore. Parte forte, molto forte e mescola tante cose (il gioiellino Americans su tutto, uno dei miei brani preferiti dell’anno), poi arriva al climax, Zebra:

dopo il mood cambia notevolmente, rallenta sempre più svelando una quiete inaspettata e per questo ancor più gradita.

Non un capolavoro, ma un disco da coccolare. Lo ritroverete in classifica ’13.

Daft Punk – Random Access Memories – recensione

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DISCLAIMER: LA RECENSIONE E’ STATA SCRITTA SENZA AVER SENTITO L’ALBUM (NON ERA ANCORA USCITO)

A questo punto direi che possiamo anche fare la recensione del nuovo album dei Daft Punk, Random Access Memories. Sono bastati un minuto e 42 secondi per scatenare l’isteria collettiva. Perché i grandi gruppi fanno uscire prima un solo pezzo dell’album, il cosiddetto singolo. I grandissimi invece addirittura solo un minuto e mezzo di un pezzo dell’album, e quello basta: in poche ore decine di remix, video dei fan, loop da 10 minuti o più. Credo che manchino solo le cover a cappella ma è questione di ore. Dunque cosa dire di questo nuovo grande e attesissimo album dei Daft Punk? Per prima cosa che non delude, non delude affatto. E’ il giusto tributo al suono del futuro di Giorgio Moroder, e di questo non possiamo che esserne fieri dato che – per quanto ne sappiamo – siamo l’unico sito che festeggia ogni anno il Giorgio Moroder Day. Il tributo prima o poi doveva arrivare, per vari motivi, ma basterebbe quel “I feel love”, un pezzo di 36 anni fa che sembra fatto domani. Perfettamente integrati nel sound Daft Punk anche Chilly Gonzales, Pharrel, Julian Casablancas, il grande Nile Rodgers e Panda Bear.  Un mix di tutto ciò che è ed è stato il pop fin qui, frullato e remixato dai due robot francesi, sempre geniali nel loro essere inattuali: non seguire il suono del momento, ma imporre quello che sarà il suono del momento. E basta sentire pochi secondi per riconoscerli, soprattutto se indossano i caschi da robot.

La Eco di Ripatti

[avvertenza: questa è una lunga monografia, perché quest’uomo la merita] 

Sasu Ripatti è un nome parecchio bruttino, involontariamente divertente, non trovate? Così di primo acchito lo assocerei ad un comico, e quindi capisco la scelta del musicista finlandese intenzionato a fare musica elettronica sostanzialmente scura e ambientale di accantonare il nome di battesimo per crearsene uno nuovo di zecca; il punto è che la cosa gli è piaciuta così tanto da crearsene almeno 4 o 5 di nomi. Ma cominciamo dal principio: il primo fu Delay, Vladislav Delay, molto più freddo in effetti, direi azzeccatissimo. E poi scegliersi come “cognome” il famoso effetto eco (ecco il piacione gioco di parole nel titolo) fu cosa buona e giusta. Siamo nel 1999, Sasu ha 23 anni.

Delay pubblica un primo album di fredda elettronica, ma le cose non sono ancora perfettamente al loro posto; tempo pochi mesi e il nostro, stacanovista fino al midollo, se ne esce con quattro album ognuno recante un moniker differente! e una differente declinazione della sua musica:

1) con il nome di Sistol pubblica un album omonimo che rigira su una minimal-techno in voga in quegli anni; 2) è poi la volta di Uusitalo con l’album Vapaa Muurari nel quale stavolta la techno si fa molto più ghiacciata e ambientale; 3) un secondo album a nome Delay, Multila e qui l’odore è già quello del capolavoro: l’atmosfera è sostanzialmente fredda e dub-techno, la cavalcata è Huone; 4) l’anno non fa in tempo a finire che Sasu ci mostra un ennesimo suo aspetto, quello di consumato uomo da club (il nostro è nato su una piccola isoletta finlandese ma nel 2000 viveva già da qualche anno a Berlino) con Luomo, l’album è Vocalcity, il pezzo che lo porta alla “ribalta” Tessio, e non so voi, ma io ascoltandolo non riesco a non figurarmi in uno di quei mega-club berlinesi a dimenarmi dolcemente.

Insomma un annus mirabilis per il nostro che dimostra di essere non solo prolificissimo ma anche su una strada lastricata d’oro; e il bello è che siamo solo all’inizio. Continuiamo:

in quel preciso momento Delay avrebbe potuto schiacciare sull’acceleratore e puntare al “successo” ma invece, da uomo in costante ricerca artistica quale è, fa un passo indietro e pubblica due album di non facile presa col suo moniker principale, Entain e Anima; il primo è freddissimo (ma ci regala un dolce congedo), il secondo, altro capolavoro, è una lunga traccia di bhò, vediamo: glitch, dub, techno-house al rallentatore e suoni vari, ma diamine quanto prende!

http://youtu.be/RbAxbvWCSOQ

Il 2002 lo vede in giro per il mondo a mietere consensi nelle due vesti di sperimentatore elettronico e dj (raffinato). Ed è infatti con Luomo che torna nel 2003, album The Present Lover, dove si fa più piacione e sessuale, ma provate a non muovere le natiche e a dondolare la testa e poi mi fate sapere. Dopo questa che sembra essere una sbornia di topa (o passera che si dir si voglia) come spesso accade il nostro mette la testa a posto concedendoci spazio anche per il gossip: si innamora e mica di una qualsiasi! nientepopodimeno che di Antye Greie, in arte AGF, un’altra prolifica sperimentatrice elettronica, insomma proprio pappa e ciccia. Eccoceli quindi subito lavorare insieme e pubblicare l’album Explode:

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/12/03-All-Lies-On-Us.mp3]

AGF/Delay – All Lies On Us

Come si può evincere non è musica per tutti i palati, un’elettronica particolarmente scarna e ficcante ma incredibilmente, grazie alla calda voce di Antye, anche molto avvolgente. L’album è davvero bello, come anche quello che lo seguirà, The Dolls, nome del progetto nel quale la coppia si avvale di un terzo membro, il pianista Craig Armstrong, che con il suo tocco aggiunge quel pizzico di trip-hop che rende il tutto forse ancora più unico. Grazie alla moglie quindi (ah sì, nel frattempo si sposano, hanno una bambina e rincasano al natio ghiaccio finlandese) il nostro ritorna su binari molto prossimi alla sperimentazione e decide di rispolverare (siamo nel 2006) il suo vecchio aka meno vendibile, Uusitalo; gli album saranno due, ma nel secondo Sasu ci miscela un po’ di Delay e un po’ di Luomo; il risultato è ancora una volta bhò, forse una dance per igloo.

Da questo momento in poi (mi) è sempre più difficile catalogare o spiegare la musica del nostro che davvero pare assurgere (meritatamente) a maestro intoccabile che può fare quello che vuole, e così, tornando al suo nome “famoso”con Whistleblower, crea cose di questo tipo:

Inizia il 2009 è sarà un altro anno intensissimo: 1) secondo album a nome AGF/Delay, ancora un potpourri di roba: synth-pop, avant-elettronica, techno-dub

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/12/09-Symptoms.mp3]

AGF/Delay – Symptoms

2) arriva su disco un progetto cominciato on stage l’anno prima a nome Moritz Von Oswald Trio; l’idea è la seguente: tre smanettoni dell’elettronica (il primo non ha bisogno di presentazioni e guida il terzetto, l’altro è Max Loderbauer) che si mettono a suonare come un trio jazz, quindi improvvisando parecchio. Inoltre il nostro torna anche al suo strumento originario, la batteria, ovviamente campionando e processando i suoni; l’album è Vertical Ascent e merita sicuramente un ascolto; 3) ancora un album a nome Delay e, vi dirò, più difficile che mai, Tummaa, questo il suo nome. Si sentono anche degli strumenti “veri” per la prima volta in un suo solo-album, ma sono trattati quasi in maniera industrial; insomma robetta difficile ma almeno un gran bel pezzo c’è:

Il 2010 scorre sopratutto lavorando dal vivo in giro per il mondo, sia da solo che con gli ultimi amichetti del MvOT. Ci sarà un’unica pubblicazione, stranamente a nome Sistol, On The Bright Side, che ancor più stranamente è più house-oriented anche de Luomo, comunque il lavoro scorre più che piacevolmente e lo renderà ancor più stimato nel settore club (è uscita anche una versione remixata dell’album da parte di altri producer). Personalmente ho goduto davvero non poco con la dance-hypnagogica di questo brano/video:

Il 2011, ci si può non credere ma, come il 2000, è ancora un anno-boom da quattro uscite/quattro nomi:

1) debutta il Vladislav Delay Quartet; è palese che il nostro c’ha preso gusto con il MvOT e ripropone gli stessi stilemi, salendo però in cattedra; sul suo sito la presenta così: VDQ is an expansive and multifaceted listening experience, consisting of Vladislav Delay (drums and percussions), Mika Vainio (electronics), Lucio Capece (bass clarinet and soprano sax) and Derek Shirley (double bass). Per chi non lo ricordasse Mika Vainio è uno dei due Pan-Sonic, quegli altri finlandesi autori di diversi capolavori (un’esperienza di vita è ascoltare il loro mostro in 4 cd Kesto). Ancora una volta vi posso dire che l’ascolto non è tanto facile; il pezzo che mi piace di più è assai kosmico.

2) seconda uscita del Moritz Von Oswald Trio, Horizontal Structures, migliore del precedente; meno ostico, con addirittura echi di chitarre e bassi funky. Qui la seconda struttura, anche questa molto kosmica, ma con reminescenze di antiche tribalità ormai microprocessate.

3) torna anche Luomo con l’album Plus e stavolta il tutto è molto soul e quindi non si può che sognare Chicago. Da godere senza troppo pensare.

4) Vantaa a nome Delay, ormai ennesimo grande album: ambient, glitch, dub, il tutto ovattato e liquido. E a proposito di liquido ho scovato questo in rete, un altro italiota che (forse) ama Delay, da Burano:

Nell’anno che sta ormai per terminare e con il quale, come sappiamo, terminerà l’umanità tutta il nostro ci ha regalato ancora una buona prova con il Moritz Von Oswald Trio, Fetch e, freschissima di pubblicazione, l’ultima fatica a nome Delay, Kuopio che ho finito di ascoltare proprio pochi istanti fa. Commenti a caldo:

Sasu è oramai un guru dell’elettronica, c’è poco da dire, sta imparando a miscelare molto sapientemente tutte le sue diverse anime, ma senza strappi nell’ascolto; me l’immagino suonare ad occhi chiusi; è sempre più emozionale ma anche sempre più incatalogabile (e sappiamo tutti che questo è un bene). Il più recente dei capolavori, ma sicuramente non l’ultimo.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/12/04.-Vladislav-Delay-Kellute.mp3]

Vladislav Delay – Kellute 

Lunga vita.

Postilla (e poi giuro che smetto): VD lo conoscevo da un paio d’anni, ho rischiato di vederlo dal vivo l’anno scorso e ne avevo ascoltato qualche album, poi, come spesso accade, l’uscita del suo ultimo disco me l’ha riportato alla mente e ho deciso di approfondirne le gesta e mi sono lasciato coinvolgere in alcune settimane d’ascolto. Alla fine è sempre inevitabile chiedersi (almeno per persone come me): perché l’ho fatto? ne è valsa la pena? ovvero: siate certi che, a meno di enormi imprevisti qualitativi, avrei portato comunque a termine la mia “missione”, cioè ascoltare tutti i suoi album; sono un completista, un fissato, ma so di non essere l’unico: ho letto di casi del genere nel libro (che vi consiglio tanto) di Reynolds Retromania. Insomma voglio andare a parare al punto che con Delay la missione la posso ritenere non solo portata a termine ma anche con risultati positivi (anche se ci sarebbe da fare tutta un’altra discussione su quando sia più il caso di ascoltare musica del genere, se ci sia un umore giusto e così via), ma alle volte le cose non vanno così e mi ritrovo ad aver ascoltato musica che poi mai più ho la voglia di riascoltare. Delle volte è frustrante perché pensi che ti stai perdendo altri ascolti, ma sopratutto perché pensi, se “da grande” non lavorerò in radio o farò il catalogo umano che me ne faccio di tutta questa roba? e: il mio cervello andrà in pappa prima o poi? e: qual è il senso della vita?

Bignami per la Liberazione della Musica Elettronica Popolare Preistorica

Credo di avere una predilezione particolare per i primi sconosciuti musicisti elettronici “pop”.

Contrariamente agli innovatori della musica d’avanguardia, che ne aumentavano la complessità chiudendosi in una sperimentazione troppo intellettuale e poco intuitiva, loro han provato piuttosto a “giocare” con le nuove possibiltà del nastro magnetico e dei primi enormi sintetizzatori, quasi del tutto isolati (per fortuna esistevano i laboratori radiotelevisivi) e contro tutto e tutti: le tecnologie nei ’50 e ’60 erano ancora primitive e sia il pubblico colto che la cultura di massa non erano pronti a farsi intrattenere da sonorità che non erano né seriose né familiari.

Se le avanguardie colte, pur avendo ispirato generi come il glitch o l’industrial, non sono forse riuscite di per sé a raccontare l’umanità del futuro, questi personaggi non solo l’hanno prevista, ma sembravano essi stessi arrivati dal futuro, o perlomeno da una dimensione parallela.

Ma prima mettetevi composti, cominciamo con una piccola cronostoria (se cercate qualcosa in più sul lato tecnico, provate qui).

Alcuni dei primi strumenti elettronici furono: il gigantesco Thelarmonium (che ispirò anche l’organo Hammond del 1935), costruito nel 1897 o giù di lì, e di cui purtroppo non ci sono registrazioni dell’epoca, il Theremin (1919), l’Onde Martenot (1928) e il Trautonium (1929), ma non riuscirono più di tanto a rivoluzionare il mondo della musica. Il curiosissimo ma un po’ arido Theremin e l’Onde Martenot furono comunque abbastanza considerati da Edgar Varese durante gli anni ’30.

In tanti avranno sentito parlare del futurista Luigi Russolo, in realtà precursore della musica noise. I suoi Intonarumori (1913) erano infatti apparecchi meccanici che generavano rumori acustici (non armonici); si trattava insomma sempre di far vibrare dei materiali come corde o lastre metalliche, etc.

John Cage nel 1939 inserì il suono di due grammofoni amplificati in una composizione con strumenti più tradizionali, il risultato fu Imaginary Landscape #1.

Pare però che il primo a conservare fino ai giorni nostri le proprie manipolazioni di musica interamente registrata non fu Pierre Schaeffer, ma un egiziano (i lettori accaniti di Guylum Bardot ne saranno soddisfatti!).

Halim El-Dabh compose Wire Recorder Piece (nel 1944, a 23 anni), modificando grazie a un registratore a filo preso in prestito da una Radio del Cairo (che al posto del nastro magnetico aveva ancora appunto un filo d’acciaio) i canti di un’antica cerimonia egiziana Zar, che pare servisse a curare malattie mentali. Niente male.

Il primo prototipo di mangianastri è stato il britannico Blattnerphone (1929 o 1930), seguito dal magnetofono tedesco della AEG (1935).

La musica concreta di Pierre Schaeffer nacque ufficialmente nel 1948 (erano comunque almeno 5 anni che ci rimuginava), ma nel Club d’Essai della Radiodiffusion-Télévision Française furono utilizzati generalmente grammofoni, filtri, e poi microfoni per registrare il tutto. Si servirono del nastro magnetico solo qualche anno dopo.
Karlheinz Stockhausen compose il suo primo pezzo di musica elettroacustica, Etude(1952), proprio lì, con il Phonogène, uno strumento costruito da Schaeffer (nella foto) che funzionava coi nastri ma aveva persino una tastiera di un’ottava. Comunque pare che il pezzo gli facesse schifo.

L’anno prima, sempre alla RTF, Pierre Henry aveva inciso Le microphone bien temperé (sempre per nastro), forse la composizione più completa nel suo genere, almeno di questi esordi.

In America invece, sempre nel 1952, al MoMA di New York, Otto Luening e Vladimir Ussachevsky presentavano il primo concerto di musica per nastro magnetico. In Low Speed, ad esempio, c’è un flauto messo in feedback e non so che altro, mi ha fatto venire in mente un po’ i Throbbing Gristle.

A Colonia anche Herbert Eimert e Robert Beyer sperimentavano sul nastro magnetico negli studi della Nordwestdeutscher Rundfunk in cui fu poi di casa anche Stockhausen. Il loro Klangstudies II (sempre del 1952), pur non essendo ancora melodico, ha un suono più pulito e sintetico, merito del Melochord, strumento a tastiera costruito nel 1947 da Harald Bode, e di un oscillatore che generava onde sinusoidali.

Ma tutto ciò di cui si è parlato finora è forse più accostabile alla sperimentazione tecnica – e quindi alla fascinazione intellettuale – che all’ascolto vero e proprio.
Si può insomma essere “profondi” anche nell’immediatezza: se l’immaginazione non ha un appiglio un poco più intuitivo è difficile arrivare a provare una qualche impressione sentimentale.

Proviamo dunque a concentrarci sugli albori della melodia nella musica elettronica.

A rigor di logica le prime melodie elettroniche – perlomeno quelle incise da qualche parte – non possono che essere nate grazie ai jingles delle reti televisive. Ma a volerci soffermare su quelli che sono i primi brani completi del genere, che superino insomma 1 o 2 minuti, a spuntare è sempre lui: Raymond Scott.

Il primo esempio della musica che nei ’60 lo farà grande (ma per pochi), è The Rhythm Modulator, pezzo ancora un po’ scarno, composto tra il 1955 e il 1957, nei suoi studi di Manhattan, dove tra le varie cose inventò il Clavivox, grazie anche alla conoscenza di Robert Moog (il cui famosissimo synth vedrà luce nel 1964, ma non distraiamoci). Un altro brano che trovate nella raccolta Manhattan Research Inc. è Lightworks, composto tra il 1960 e il 1963, forse uno dei più “moderni dentro”.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/230-lightworks-instrumental.mp3]
Raymond Scott – Lightworks

Meanwhile, in Olanda, all’interno dei Laboratori della Philips si faceva la storia, grazie a Tom Dissevelt, Dick Raaymakers (nome in codice Kid Baltan) ed Henk Badings, quest’ultimo guarda caso nato a Java quando era colonia olandese, sempre per la gioia dei lettori più stramboidi (sarà anche per questo che Dissevelt ha scritto il primo pezzo elettronico ispirato al gamelan nel 1963?). In questo video potete vedere i primi due che tagliano e incollano con lo scotch i nastri in cui venivano registrate le forme d’onda generate da macchinari poco comprensibili.

Popular Electronics: Early Dutch electronic music from Philips Research Laboratories, 1956-1963 è un box di 4 cd uscito nel 2004 per l’etichetta olandese Basta (ma speriamo invece continui), e raccoglie i brani di cui sto per parlare e altro ancora.
Badings ha musicato un balletto teatrale messo in scena all’Holland Festival nel 1956, Cain and Abel. Lo stile è ancora caotico e a volte frammentario, ma non ostico come certa elettroacustica o acusmatica (ricordiamo che per acusmatici si intendono i suoni derivati sempre da registrazioni concrete ma diventati totalmente avulsi e astratti); l’introduzione e il primo episodio hanno una “piacevole” immediatezza d’ascolto nella loro tensione da psichedelia horror.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/1-02-henk-badings-kain-en-abel-first-episode-conflict-conclusion-transition.mp3]
Henk Badings – Cain and Abel, first episode

Il primo 33 giri di musica elettronica pop (anche se i brani con un vero motivetto pop sono la metà) ha avuto due versioni leggermente diverse, non solo per i nomi dei titoli: la Philips ha fatto uscire The Fascinating World Of Electronic Music a nome Tom Dissevelt & Kid Baltan nel 1959, diventato nel 1962 Elektrosonics: Electronic Music; se vi interessa tra le varie ristampe pare ne sia uscita un’altra quest’anno in CD per la Omni. I due hanno curato comunque brani diversi: il brano più antico (uscito come 45 giri nel 1957) è Song of The Second Moon di Baltan, ma a spiccare è Orbit Aurora, creata da Dissevelt nel 1958 col nome originario di Syncopation. Sembra di stare all’interno di una fiaba futuristica, o di qualche pianeta parallelo.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/06-orbit-aurora.mp3]
Tom Dissevelt – Orbit Aurora

L’aneddoto più bello riguarda comunque questo tizio qui sopra, Raaymakers, che era solito condurre un’esistenza riparata, dedicandosi alle sue apparecchiature; nel 1965 il suo agente lo chiamò per proporgli di fare la colonna sonora di un film di fantascienza di un giovane regista… il cui nome non gli disse nulla, e poi era stanco, e non aveva tempo… peccato, Kubrick ci rimase male.
La loro musica è rimasta così a prendere polvere, anche se pure artisti come David Bowie han dichiarato di esserne rimasti folgorati.

Due cose però sono mancate a queste melodie: ritmo e canto, e qualcuno qui rimpiangerà i Kraftwerk.
I tedeschi, infatti, se dal 1970 si erano ispirati alle musiche elettroniche colte mischiandole al rock (Kluster e Tangerine Dream facevano già a meno del rock, ma di certo non erano pop), poi via via si erano affrancati da elementi acustici o soltanto elettrici, arrivando prima con Autobahn (1974) e poi maggiormente con Radioactivity (1975), a unire alle melodie elettroniche ritmi sintetici e canto.

Di canzoni con musica elettronica ce n’erano già state molte: ci avevano pensato per primi i newyorkesi Silver Apples (1968) e Fred Weinberg (sempre nel 1968, con la beatlesiana Animosity), e gli White Noise (1969) di Delia Derbyshire, autrice di musiche ed effetti sonori al Radiophonic Workshop della BBC dal 1962; ma i suoni elettronici non coprivano tutte le componenti della loro psichedelia.

Una menzione particolare voglio darla a Cecil Leuter, il cui Pop Electronique n°2 (1969), pur non avendo cantato nè drum machine, sembra una versione per Moog di Fatboy Slim, o qualcosa del genere.

In realtà dei primi pionieri in fatto di canzoni interamente elettroniche, anche se con ritmi un po’ grezzi, Guylum Bardot ha già parlato altrove, con Mort Garson e il suo Wozard of Iz (1969) e soprattutto il Bruce Haack di Electric Lucifer (1970). Il disco di Garson i suoi anni li sente un po’ troppo, mentre Haack, anche se sempre in stile psichedelico, si difende molto meglio (c’è persino il vocoder; ma sentite la strumentale Supernova, pare uscita ieri).

Concludiamo allora con un personaggio ancor più strampalato, pioniere per caso di un pop elettronico quasi senza tempo.

Hans Edler, adesso musicista mainstream in patria (i suoi altri video su youtube fanno 30.000 visualizzazioni), prese nel 1969 (a 23 anni) delle lezioni all’Elektron Musik Studion di Stoccolma, centro di sperimentazione attivo dal 1960, e lì, su quei grossi sintetizzatori incastonati nel mogano, ebbe non si sa come la possibilità di registrarci un disco due anni dopo (speriamo non grazie a comportamenti lascivi, il fatto è che quella copertina ci inquieta un po’).


Elektron Kukéso (500 visualizzazioni) è un disco allo stesso tempo naif e sorprendente: nelle quattro canzoni sembra di sentire la voce di un Brain Eno sbronzo. Il resto sono più che altro nenie liturgiche (buone per un film di Bergman).

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2012/10/07-hans-edler-det.mp3]
Hans Edler – säg vad Är det

Durante le canzoni vere e proprie la musica è un misto di tastierine bambinesche, accordi tonali, e di frastuoni sintetici (un intruglio di avanguardia e pop da non credere); mentre sullo sfondo delle cantilene ci sono soltanto i rumorismi e i blip blop da computer impazzito. L’EMS di Stoccolma era rinomato infatti per gli studi sulla composizione programmata al computer.

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2012/10/02-hans-edler-langt-bort.mp3]
Hans Edler – långt bort

Per chiudere il disco si permette pure uno strumentale, sempre funebre e pieno di Bzzzz, Shhhhh e Ktttrrr. Di ritmiche comunque neanche l’ombra, ma possiamo perdonarglielo, era giusto lasciare qualcosa da fare ai Kraftwerk.

Il triangolo sì: Robin Guthrie, Harold Budd e John Foxx

In questa orripilante foto possiamo ammirare, a partire da sinistra: 1) Robin Guthrie, co-fondatore dei Cocteau Twins; 2) Harold Budd, compositore; 3) un russo ubriaco vestito peggio di Paolo Limiti, non meglio identificato; 4) John Foxx, ex leader degli Ultravox

L’articolo si concentrerà però su soltanto tre di questi quattro. Chi sarà l’escluso?

Scopritelo.

Ménage à trois è un’espressione francese indicante una relazione, non necessariamente di natura sessuale, ma in ogni caso di tipo sentimentale, fra tre persone (wiki). E se queste tre persone sono John Foxx, Harold Budd e Robin Guthrie le cose si fanno parecchio interessanti, non trovate?

John era, come molti sapranno, l’anima originaria degli Ultravox, i primi, quelli col ! alla fine del nome, messo lì per citare (ed imitare) i mostri tedeschi Neu! le cui sonorità, mischiate al Bowie berlinese e non e ai Kraftwerk davano base al loro post-punk. In effetti tra i primi new-wavers in circolazione.

Ma andiamo avanti: ad un certo punto John si annoia, lascia gli Ultravox, che proprio allora faranno il botto guidati da Midge Ure, e pubblica qualche album da solista, quasi tutti fiaschi assoluti, poi scompare (classica parabola verso l’oblio si pensava, ed invece…)

Harold Budd è un personaggio assai riservato, non è che si sappia molto di lui, comunque è un diplomato in composizione fin dagli anni ’60 e citando sempre wiki “crebbe nel deserto del Mojave e fu ispirato in giovane età dal rumore generato dal soffiare del vento attraverso i cavi del telefono”; mica noccioline!

Diventa famoso grazie all’onnipresente Brian Eno che gli produce con la Obscure un album davvero bello, dove potete trovare la migliore musica per addormentarsi come infanti dopo il biberon.

Da li in poi diventa il maestro riconosciuto dell’ambient più “classica”. Da segnalare un altro suo album magnifico, del 2004, simpatica boutade, in quanto doveva essere il disco con il quale il maestro annunciava la sua uscita di scena, cosa che poi non avverrà. Tra i massimi album ambient di sempre.

Robin Guthrie è tra i membri fondatori dei Cocteau Twins, e non so voi, ma solo per questo la meriterebbe una statua in un qualche paese in via di sviluppo. Alfieri di quello che chiameranno dream-pop, negli anni ’80 erano davvero forti, e già lì un primo contatto col maestro Budd.

Gli incontri:

Dicevamo dell’oblio di Foxx, dal quale incredibilmente l’ex-cyborg new-wave uscì nel 1997 per amore dell’ambient music più gotica-gregoriana (per intenderci, quella che fece la fortuna, pochi anni prima, di Jan Garbarek). L’album che segna il suo ritorno si chiama Cathedral Oceans.

In realtà la sua parte robotica John non l’abbandonerà affatto, e come un moderno dr. jakyll/mr. hide da qui in poi continuerà ad approfondire queste sue due anime con risultati mai raggiunti neppure con gli Ultravox! Ma tornando a ciò che ci interessa, è del 2003 l’incontro tra Foxx e Budd, così prolifico da generare due album pubblicati nello stesso anno: Translucence e Drift Music. L’ambient più pura che potete immaginare.

Diciamocelo, da lacrimoni:

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/2-12-You-Again1.mp3]

Harold Budd & John Foxx – You Again

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/3-14-Underwater-Flowers.mp3]

Harold Budd & John Foxx – Underwater Flowers

Il Maestro Budd invece ri-incontrerà il geniaccio Guthrie per la realizzazione di una colonna sonora; è il 2005, il film è Mysterious Skin.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/01-Neils-Theme.mp3]

Robin Guthrie & Harold Budd – Neil’s Theme

Nel 2009 il triangolo si completa con l’uscita di Mirrorball, album a nome Foxx/Guthrie. Un viaggio in altri mondi, ma forse sarebbe meglio dire nelle profondità oceaniche:

[e con questo post diamo il benvenuto all’amico mckenzie]