LICHENI n.1 "CORPO" luglio 2021

Catetere pazzo

di Lidio Pellegrini

Tra la perfezione corporea dell’uomo vetruviano e le derive della materia sfatta di Hank Chinaski che defeca e sborra, vomita e piscia ininterrottamente nell’arco di 74 anni, la mia preferenza – non ne sono orgoglioso ma è un fatto – è sempre andata all’evidente sbando corporale del secondo. “Sangue e merda”. Così il socialista d’antan Rino Formica. Parlava della politica, l’arte di governare gli esseri umani, cioè quei mammiferi che ridotti alla loro essenza, depurati di ogni slancio ideale e idealistico, quello sono. Va bene, questa si può considerare accettabile. Ma sprofondare ancor di più in un abisso corporale dove a questa cupa consapevolezza si unisce un dolore fisico continuo – per di più concentrato in quell’organo maschile che si ritiene “batta in testa” più di qualsiasi altro – la questione assume aspetti pratici e psicologici letteralmente insostenibili.

Ma, ancora una volta, stiamo ai fatti. Circa un anno e mezzo fa, sono stato operato d’urgenza a causa di un’ernia del disco lombo sacrale espulsa in seguito a una caduta. La compressione dell’ernia sulle radici nervose ha provocato importanti lesioni di cui patisco le conseguenze ancora oggi. Probabilmente per sempre. Ma non è di questo che voglio parlare. In fondo, ci sono (quasi) abituato, ormai. Invece, ad abitare ancora oggi i miei peggiori incubi è qualcos’altro. Ricordo benissimo gli attimi prima dell’operazione. Sono steso su un barella. Entro in sala e 1 2 3 mi posizionano sul tavolo operatorio. Le lampade scialitiche mi accecano. L’anestesista è una ragazza molto giovane, mi pare sulla trentina – “Speriamo che a tutto questo segua anche un risveglio” penso – ma sono tranquillo, anche perché imbottito di valium, e il naufragar m’è dolce in questo mare lisergico. L’anestesista mi piazza una mascherina sulla faccia e parte il classico “Conti a ritroso partendo da 10”. Credo di non essere arrivato neanche al 5. Non ricordo. Anche perché, come ho detto, quel sonno psichedelico non è stato neanche malaccio. Un po’ come il risveglio in corsia. La morfina fa sempre bene il suo lavoro. Dalla pancia in giù la sensibilità è scarsa o inesistente, a macchia di leopardo. Nel dormiveglia mi tocco in mezzo alle gambe. Ad una prima sommaria auscultazione riconosco la presenza di una massa carnosa di forma più o meno sferica, nonché di un cilindro informe e molliccio dal quale si prolunga una tubatura destinata a raggiungere un non meglio identificato centro di raccolta. Non ci rifletto più di tanto, non è il momento, mi lascio cullare tra le braccia di Miss Emma. Me lo merito, sono stato appena operato, cazzo.

Here I lie in my hospital bed

Tell me, Sister Morphine, when are you coming round again?

Oh, and I don’t think I can wait that long

Oh, you see that I’m not that strong

Il giorno dopo, al risveglio, non sento alcun dolore. Sono anche decisamente più sveglio. Al giro medici vengo informato che in mattinata mi sarà tolto il catetere, la pipeline di cui sopra. In effetti facendo mente locale ricordo che poco prima di essere operato ho mollato qualche leggera pisciatina sulla barella. Roba da niente, poche gocce dovute allo scarso controllo che ho della zona, ma sufficienti per indurre i presenti a infilarmi – a mia totale insaputa – un tubo di plastica nell’uccello.

Il tubo – sottile ma bastardo – è sostituito da un grosso oggetto di plastica dura – l’orinale chiamato chissà perché “pappagallo” – la cui presenza è assolutamente sopportabile, nonostante il volume. A sera però ho fortissimi dolori al basso ventre. Siccome so che tra gli effetti collaterali degli oppioidi c’è anche la stipsi, penso di dover defecare con urgenza. Siccome non riesco a farla (a parte i miei problemi specifici del momento, cagare in posizione orizzontale su delle lenzuola candide è un’impresa che può riuscire solo ai migliori e più preparati tra noi) chiamo l’infermiere di turno chiedendo – a mezza voce perché mi imbarazza – che mi sia praticato un clistere. Niente da fare. Sono le sette di sera e certi operazioni – mi informa l’addetto – si effettuano solo la mattina.

“Ma io devo farla adesso, ho dolori molto forti”.

“Sopporti, se vuole le do un antidolorifico”.

Passa mezz’ora e lo richiamo, i dolori sono lancinanti. La risposta è la stessa: niente da fare.

Dopo altri 30 minuti ho dolori così forti che mi contorco sudato senza trovare tregua. Mi sembra di avere tanta merda in pancia da provocare una prossima esplosione di tale potenza da distruggere non solo la mia camera ma addirittura l’intero reparto. Richiamo una terza volta. E finalmente, pur prostrato dal dolore, centro il bersaglio grazie a esplicite minacce rivolte urlando agli infermieri. Dopo cinque minuti tornano col clistere e mi inondano il culo di un liquido viscido che dovrebbe favorire l’evacuazione. Purtroppo però non succede niente. Non cago e i dolori sono sempre più forti. Altre rimostranze, al prezzo di venire etichettato come il solito paziente rompicoglioni odiatissimo da medici e infermieri. Arriva una dottoressa che mi preme la pancia, gonfia come un pallone e, all’infermiere – ovvio – fa recuperare il pappagallo. E’ vuoto. Neanche un goccia di pipì. Nessuno mi ha controllato e nessuno – me compreso nonostante i sommovimenti provocati dalla sofferenza – si è accorto che non piscio da più di 15 ore e la vescica scoppia. Arriva di corsa un giovane specializzando in urologia. Mi informa che dovrò farmi infilare nuovamente il tubo nell’uccello. Non ci sono alternative, si rischia la rottura della vescica. Adesso però sono perfettamente sveglio e l’operazione, anche se non particolarmente dolorosa, è fastidiosissima. Sento un forte bruciore causato da questa versione occidentale del candirù del Rio delle Amazzoni che si intrufola attraverso le vie urinarie e mi scivola dentro. Di più: mi penetra fino al cervello, almeno così mi sembra. Ma – questo va detto – al fastidio succede un immediato benessere, la sacca dell’urina si riempie quasi completamente e il dolore scompare.

Senti,” mi disse, “è da un po’ che mi scappa da pisciare. Portami una bottiglia vuota.” C’erano bottiglie vuote dappertutto. Gliene portai una. Non aveva cerniera, ma dei bottoni, solo l’ultimo era allacciato per via della pancia gonfia. Frugò nella fessura e tirò fuori il pene, appoggiandone la punta sul collo della bottiglia. Quando iniziò a urinare il pene si indurì e iniziò a ondeggiare, spruzzando piscio ovunque… sulla camicia, sui pantaloni, in faccia e, incredibile ma vero, l’ultimo schizzo gli entrò nell’orecchio sinistro.

Essere invalidi è un inferno,” disse.

Va detto pure questo: se c’è uno che di certi argomenti sa parlare con accuratezza e competenza, quello è Chinaski.

Flashback su quei primi giorni di “convalescenza” post operatoria: io che come un criceto sulla ruota faccio sempre lo stesso giro per i corridoi del reparto con l’ausilio di un deambulatore. “Essere invalidi è un inferno” e con la sensibilità alle gambe – due protesi estranee al resto del corpo – e ai piedi completamente alterata – mi sembra di camminare a piedi nudi su dei ciottoli – senza un deambulatore non riuscirei nemmeno a stare in equilibrio. Camminare poi è un’iperbole. Massimo mezz’ora al giorno. Forse un’ora nei giorni migliori. Le rimanenti 23 le passo a letto. Il deambulatore come simbolo di una resa invincibile. Però basta poco per vederne anche il lato positivo: resistenti tubi metallici alla giusta altezza da terra buoni per agganciarci la sacca col piscio. Che come una cagnolina mi ballonzola a fianco mentre cammino. Accompagna ogni momento della mia giornata perché quando dimentico della sua importanza mi rigiro nel letto subito si fa sentire il suo peso strattonandomi la vescica. Attento quando ti alzi a non tirare il tubo. Attento quando ti giri. Attento quando ti muovi. Attento quando ti vesti. Attento quando ti svesti. Attento al diocane. Del momento in cui l’oleodotto che mi ritrovo infilato nel corpo verrà rimosso nessuno parla. Lo dovrò tenere per sempre? Peraltro, giorno dopo giorno, assisto a un fenomeno piuttosto interessante dal punto di vista scientifico, se solo riguardasse qualcun altro. Il mio vecchio arnese sembra solo un lontano ricordo. Si ritrae. Lentamente ma inequivocabilmente. Rimpicciolisce. Ormai l’appellativo più corretto per definirlo è “pisellino”. Soffre. Brucia. Patisce. Ma il suo grido d’aiuto rimane inascoltato. Tra l’altro non cago da giorni. Mangio poco, d’accordo. Ma deve essersi comunque accumulata nell’intestino una tale quantità di residuo da concimarci un campo di patate. Odio l’ospedale e so che devo fuggire da quel posto se voglio dare inizio a una vera convalescenza. Una notte, cercando un posto più appartato del cesso che condivido col mio compagno di stanza che svuota regolarmente almeno metà della vescica tra asse del water e pavimento, per provare a cagare con un minimo di privacy mi allontano cercando uno di quei bagni nei corridoi di collegamento tra reparti destinati ai visitatori. Che di notte però sono lindi e liberi dalla presenza umana. Facendo attenzione, mi calo i pantaloni della tuta e aggancio la fottuta sacca del piscio al braccio posizionato come ausilio a fianco del water. Niente. Rinuncio dopo vari tentativi. Tornando affranto in camera, la sorpresa. L’infermiera di turno mi redarguisce pesantemente per aver abbandonato la camera senza permesso.

“Stavo per avvertire la vigilanza!”

Mantengo la calma: “Ma mi faccia il piacere”. E finisce lì [brutta vacca, ti cagherei in bocca, se solo potessi].

Finalmente dopo dieci giorni di purghe e clisteri riesco ad evacuare. Il mio personale 25 aprile. Anche se mancano giusto quindici giorni a Natale. E il catetere? Resta lì. Se poi non piscia, che facciamo? Togliamo e mettiamo, togliamo e mettiamo? Ho capito: lo dovrò tenere per sempre. Ne sono convinto. Ma in quel momento me ne frego. Mi basta andare a casa. Abbandonare l’inferno e tornare a riveder le stelle. L’infermiera mi svuota la sacca pochi minuti prima di andarmene. Nessuno mi anticipa niente sul futuro che mi aspetta. Arrivederci e grazie. Esco in carrozzina con la mia sacca in bella vista attento a far sì che non si incastri nelle ruote. A casa però l’umore migliora. Fino alla mattina dopo. Quando mi chiamano dal reparto per fissarmi una visita di controllo (di controllo?!? Ma quando cazzo me la tolgono sta protesi?) per il catetere il 19 gennaio. Più di un mese dopo. Prima? Non è proprio possibile.

Mi sembra di impazzire. Mi sento bruciare dentro. Fanculo tutti. Dovete morire. Piango. Bestemmio. Bestemmio. Piango. In loop. Passano i giorni e non so a che santo rivolgermi. Poi imbocco la solita strada: visita privata. L’urologo è gentile e competente. Mi visita accuratamente e mi spiega che dopo tutti quei giorni con il catetere la mia vescica è disabituata a fare il suo lavoro. Mi fa togliere subito la sacca bloccando il tubicino con un tappo da togliere e rimettere ogni tot per tornare ad addestrare i muscoli dell’area. Mi prescrive dei farmaci per facilitare la minzione che avrei dovuto prendere fin da subito. 150 euro ben spesi, riconosco. Passano i giorni ed eseguo disciplinatamente. Spero di migliorare, ma non ne ho la certezza. Del resto la tensione è sempre a mille. Ho voglia di strappare tutto e liberarmi da quelle catena che imprigiona il pisellino. Il 25 dicembre però il bruciore è insopportabile. In Pronto Soccorso supplico che mi venga tolto il catetere, non ce la faccio più. Ma la dottoressa di turno si rifiuta.

“Se poi non urina deve tornare qui e farselo rimettere. Non mi assumo la responsabilità. Se vuole proprio farselo togliere mi firma una liberatoria”.

Non me la sento. Mi sento abbandonato.

Dopo altri due giorni però sono al limite. E pronto a rischiare, il fastidio e il bruciore sono troppo forti. Telefono all’urologo che mi riceve subito in studio. Mi sfila il maledetto tubo che ormai mi pare incollato alla pelle, aumentando almeno temporaneamente il bruciore. Ma è un attimo. Sto subito meglio.

“Adesso vada giù in giardino, si compri dell’acqua, beva e cammini. Cammini e beva. Io sono qui, nel caso di debba intervenire di nuovo (tradotto: rifarmi piombare nell’inferno)”.

Eseguo e dopo un’ora circa di questa ginnastica provo ad andare in bagno. Dal pisellino esce un filino di piscia. Buon segno. L’urologo mi dice che posso andare a casa. Dovrò pisciare nel pappagallo che mi sono comprato tenendo conto di quanta urina produco giornalmente, ma la strada da quel momento è in discesa. Dio mi è venuto in soccorso al modico costo di 100 euro.

Era bello esser soli. Però non ero solo. Ogni volta che andavo a pisciare vedevo quel ragno, e allora pensavo: mi sa tanto, ragno mio, che ti toccherà sloggiare. Non mi garba che tu te ne stia lì, in quell’angoletto buio, a catturare le mosche e gli insetti e a succhiargli il sangue. Vedi, tu sei malvagio, ragno mio, io no. Io sono buono. O perlomeno, a me piace vederla così. Tu invece non sei altro che un’oscura maledetta molecola di morte, ecco cosa sei tu. Magnamerda. Però adesso hai finito di godere.

Trovai una scopa, nel retrocucina, e tornai di là e lo sfragnai con un colpo, gli diedi la morte. Bene, ecco fatto. Sì, lui stava lì da prima, questo è vero, da prima di me. Ma come poteva, Marie, sedersi sulla tazza con il suo enorme culo e cagare e guardare quel ragno? L’avrà mai manco visto? Forse no.