di Daniele Finkbräu
Che cos’è la milza? Nessuno, a parte il personale sanitario (ma anche qui non ci metteremmo la mano sul fuoco) sa bene cosa sia, dove sia e soprattutto a cosa serva.
Sicuramente però ne avrete sentito parlare, fin da bambini: quando correte dopo aver mangiato e avvertite un dolore sordo sotto le costole di sinistra, i vostri genitori e la maestra vi avranno insegnato che vi fa male la milza. Quando venite a sapere che il vostro vicino di casa ha avuto un incidente stradale e si è rotto la milza, non sapete bene quali pene infernali ha passato, ma il vostro sesto senso vi dice che se l’è vista brutta.
Ma procediamo per ordine e, prima di addentrarci in un mondo di sangue, angoscia e sofferenza, riassumiamo brevemente le caratteristiche di questo strano organo.
Tutti noi, o quasi, nasciamo con una milza in gentile dotazione da parte di Madre Natura.
Cos’è? Un organo lungo circa 12 centimetri, largo 8 e spesso 4, di forma grossolanamente discoidale o a cappello di fungo porcino, dalla consistenza morbida, fragile e simile a una spugna, del peso di circa 200 grammi. La sua caratteristica “pericolosa” è la ricchezza di vasi sanguigni al suo interno: una grossa arteria, l’arteria splènica, porta il sangue al suo interno, penetrandola proprio in mezzo, addentrandosi e suddividendosi in decine di migliaia di piccole diramazioni proprio come i rami di un albero. Quindi, una vena altrettanto grossa (la vena splènica) porta via il sangue filtrato rimandandolo in circolo nel resto dell’organismo.
Dove si trova? Molto semplicemente: in pancia. Oppure, se vogliamo essere più eleganti, nella cavità peritoneale, precisamente in quella regione chiamata ipocòndrio sinistro: la porzione superiore sinistra dell’addome, sotto il diaframma e, per semplicità di immaginazione, tra lo stomaco e il rene sinistro. Insomma, un organo di sinistra, rosso sanguigno e bello incazzato.
Soprattutto: a cosa serve? La nostra amica ha due funzioni principali: 1) filtraggio del sangue per la risposta immunitaria, ossia uno sterminio di massa di batteri, virus e altre creature che transitano col flusso sanguigno, e 2) emocaterètica: distruzione dei globuli rossi e delle piastrine vecchi e usurati, una via di mezzo tra un centro biologico di geronticidio e uno sfasciacarrozze. Capite quindi che, per esercitare queste funzioni, ogni minuto deve scorrere una grande quantità di sangue all’interno dei suoi tortuosi meandri.
Fin qui, abbiamo potuto ammirare le meraviglie del corpo umano. Ma quando la fisiologia sconfina nella patologia, iniziano le note dolenti, abbandoniamo le nostre sicurezze e ci addentriamo sempre più in un territorio oscuro, bizzarro e dominato dal casuale e dall’imprevedibile.
Quando la milza è tutta intera, bella e in pace nella sua cavità addominale, siamo tranquilli e felici. Quando però si rompe, detto nell’asettico linguaggio di una sala operatoria, sono cazzi da cagare. Ma perché si deve rompere? Madre Natura ha inconsapevolmente sistemato la milza in posizione strategica per terrorizzare i medici del Pronto Soccorso e far passare notti insonni ai chirurghi d’urgenza. Come abbiamo già accennato, la milza è un organo fragile e ricchissimo di vasi sanguigni. Ma non solo: è situata a diretto contatto con le ultime costole di sinistra, ed è molto mobile all’interno della pancia. Questa combinazione letale è il motivo per cui, in un trauma addominale, è l’organo che più frequentemente va incontro a rottura: basta una frattura di una certa entità a una o più costole, una brusca decelerazione, una caduta o un colpo di particolare forza, e la nostra amica oscilla pericolosamente all’interno dell’addome provocandosi tutta una serie di lesioni che vanno dalla sbucciatura, alla rottura parziale o completa, fino ad arrivare al temuto spappolamento o alla letterale esplosione. Maggiore è la distruzione dell’organo, maggiore sarà la quantità di sangue che si riversa dentro l’addome: si configura il quadro catastrofico di emorragia interna. In quest’ultima situazione, la soluzione è una sola: portare appena possibile la persona traumatizzata in sala operatoria, aprirgli la pancia, togliere la milza e chiudere tutti i vasi sanguigni che vomitano sangue come un rubinetto aperto. L’intervento chirurgico in questione si chiama splenectomìa. Lontani da ogni retorica supereroistica o cazzata spettacolare, prima si fa e meglio è, ogni minuto è prezioso e bisogna muovere il culo. Sappiate che, in seguito a questa procedura (ovviamente se non sopraggiungono complicanze), la vostra vita, in particolare la durata, non cambierà in modo significativo rispetto a quella degli altri esseri umani.
Se per vostra fortuna non avete mai messo piede in una sala operatoria, riesce estremamente difficile immaginarne il clima di agitazione, tensione e frenesia che si scatena durante un intervento di questo tipo. Non dite di essere esperti di serie TV di ispirazione medica: NON dipingono la realtà, la chirurgia, soprattutto quella d’urgenza, è fatta di sangue, merda e budella, parolacce e scaramanzie volano come uno sciame di mosche, odori di tutti i tipi si fissano per giorni nelle narici. Dimenticatevi Gray’s Anatomy o lo stereotipo del chirurgo miliardario con la moglie figa e frustrata e che opera in silenzio, tipico di un numero incalcolabile di film italiani epigoni di Muccino. Se ancora non volete crederci, sappiate che persino il prestigioso British Medical Journal ha pubblicato uno studio sull’indissociabile rapporto tra chirurghi e male parole.
Per facilitare l’immersione in una normale giornata di sala operatoria d’urgenza, illustriamo ora una tipica situazione che richiede l’asportazione di una milza.
Giorno d’estate, strade affollate, turisti numerosi come mosche, traffico frenetico verso le spiagge. Drogati di aria condizionata a manetta, i due chirurghi di turno in un tipico reparto ospedaliero sono impegnati nelle loro consuete attività quotidiane: bevono il quinto caffè della giornata, molestano le infermiere con battute da caserma a triplo senso, fanno il cosiddetto giro dei pazienti, maneggiano ferri e sonde, puliscono ferite, espletano burocrazia. Improvvisamente, squilla il telefono. È il Pronto Soccorso. Poche e sintetiche informazioni, recitate in tono allarmato, scuotono la calma del reparto: uomo di 36 anni, incidente stradale, ha appena fatto la TAC, milza rotta, i parametri [vitali] stanno diventando instabili, è molto sofferente. “Cazzo, milza rotta, andiamo in sala”, il chirurgo avvisa il personale del reparto che lui e il suo collega si precipitano in Pronto Soccorso e poi in sala operatoria. I primi minuti successivi alla chiamata alle armi sono particolarmente frenetici. Nella breve distanza che separa il reparto dal Pronto Soccorso, il telefono cordless del chirurgo si infiamma e volano dati, parametri, numeri, indicazioni, che alle parole “milza rotta” innescano un’apocalittica reazione a catena di tutto il personale sanitario coinvolto. I primi a ricevere il fatidico avviso sono l’anestesista e il rianimatore, poi gli strumentisti di sala operatoria, quindi il medico del Centro trasfusionale, che a loro volta informano altri medici, altri infermieri, altri tecnici e così via. Si segue un protocollo rigido di figure, personaggi e linee guida, appreso in anni di esperienza, che può comunque essere modificato a seconda dell’occasione. Il tipo di reazioni del personale è di norma abbastanza controllato, si reagisce freddamente e metodicamente; ma c’è anche chi si scompensa, si agita, perde il controllo nell’idea di dover coordinare una mole così elevata di input e output in un lasso di tempo estremamente ristretto.
Osservando lucidamente la baraonda, emergono tuttavia particolari curiosi. Alcuni modi di dire, visti ad acque calme, sono bizzarri e surreali, frasi che in un contesto diverso assumerebbero connotazioni assurde o insensate: “vado in sala” (da pranzo?), “prepara per un addome”, “chiama il Centro” (Trasfusionale), numeri sparati apparentemente a caso, abbreviazioni e acronimi al limite dello scioglilingua. Una volta concluse le prime indicazioni telefoniche, si arriva in Pronto Soccorso, sul teatro di guerra. La vittima dell’incidente viene immediatamente ribattezzata “paziente”. Lo si visita, si esamina la gravità, si dà un occhio ai parametri vitali sul monitor a cui è collegato, ci si scambiano rapidamente informazioni col personale del Pronto Soccorso, si guardano le immagini radiologiche che confermano l’indicazione all’intervento chirurgico in emergenza. Se è cosciente, si informa brevemente il paziente con una formula tipica: “Signor Petrus Perlenbacher (sono due birre dell’Eurospin), secondo gli esami che ha appena fatto, l’incidente ha causato la rottura della milza, quindi in questo momento c’è un quadro di emorragia interna nella sua pancia: per risolvere la situazione e farla guarire, dobbiamo portarla subito in sala operatoria e fare un intervento chirurgico in cui si toglie la milza; si vive bene anche senza la milza ma, se non la operiamo adesso, la situazione può diventare molto pericolosa e può metterla in pericolo di vita. Accetta l’intervento?”. Molto più che ad un classico matrimonio, la totalità dei pazienti risponde “sì”.
Si trasporta quindi il paziente verso la sala operatoria. La barella dove giace il traumatizzato inizia a muoversi, circondata da un corteo di figure che, come formiche che trasportano un pezzo di cibo troppo grande per ognuna di loro, si muovono armoniosamente attorno ad esso e sono deputate a una propria e specifica funzione: chi spinge, chi monitora, chi apre le porte, chi chiama l’ascensore. La processione attraversa corridoi pieni di persone in visita o in attesa di esami, che si fanno da parte e osservano silenziosi e inquieti, quasi come nel passaggio di un corteo funebre. Un po’ come un monito che “può succedere anche a te”.
Entriamo in sala operatoria. Il clima è frenetico, anestesista e infermiere di anestesia stanno affilando le armi per lo sconosciuto in arrivo, preparando siringhe con liquidi ed etichette multicolori, tubi di diverse dimensioni e presìdi per la gestione di qualunque emergenza immaginabile. Sconosciuto sì, ma si allestisce il materiale come se si conoscesse alla perfezione chi avremo di fronte. D’altronde, morfologicamente, siamo tutti uguali. Lo strumentista e gli infermieri di sala preparano febbrilmente i tavolini e i carrelli con i ferri chirurgici: strumenti contorti, poco eleganti ma funzionali, talora grossolani e di aspetto minaccioso. C’è tanto baccano, gente in divisa che corre da una parte all’altra, ognuno col suo ruolo, voci e agitazione generale.
I chirurghi, in genere due (il primo operatore e l’aiuto), osservano brevemente la scena, danno le ultime indicazioni sulla preparazione dell’intervento e corrono a lavarsi. “Ci laviamo”, altro termine surreale perfettamente adatto a questo contesto. Dopo una disinfezione delle mani che di norma, in queste situazioni di emergenza, non è esattamente accurata (dimenticatevi i libroni secondo cui “il lavaggio chirurgico delle mani deve durare sette minuti”), i chirurghi rientrano nella sala operatoria con mani in alto. Si asciugano, gli strumentisti li vestono con camici e guanti sterili, e si dispongono ai lati del paziente che nel frattempo è stato trasferito dalla barella al tavolo operatorio. L’operatore si posiziona alla sua destra, mentre l’aiuto alla sua sinistra, di fronte al collega. Una volta che il paziente è stato addormentato e stabilizzato dall’anestesista con litri di liquidi, gas e farmaci ipnotici, sedativi, rilassanti e antidolorifici, pompe e pompette per tirar su la pressione del sangue, si “fa il campo”: si prende una pinza con, al suo apice, un batuffolo di garza che viene intinto in una ciotola piena di un disinfettante iodato dal color marsala. Il liquido tinteggia tutta la pancia, dai capezzoli alle cosce del paziente: questo permette lo sterminio di massa dei batteri che normalmente popolano la pelle, in modo da permettere di lavorare in sterilità ed evitare la contaminazione dell’interno dell’addome che, di norma, è appunto sterile.
“Fatto il campo”, si posizionano dei teli sterili che delimitano il “campo operatorio”, si forma cioè un rettangolo chiuso che isola la pancia del paziente dal mondo esterno, e dal paziente stesso: sembra quindi di lavorare su un addome decontestualizzato, come se ci fosse solo quello, niente testa, torace, braccia o gambe, entità corporee nascoste alla nostra vista da teli dal verde colore riposante per gli occhi. Siamo di fronte a una strana figura geometrica con al centro l’ombelico, gonfia e tesa come una bolla in procinto di esplosione per il sangue ribollente contenuto al suo interno.
“Siamo pronti”, dice il chirurgo a voce alta, aspettando il via libera dell’anestesista per procedere all’incisione. Durante questo breve lasso di tempo, uno degli ultimi attimi in cui si può respirare prima della parte peggiore della tempesta, c’è spazio per un sacco di cose.
Paura e tensione: “ho fatto tanti di questi interventi, ma ognuno è diverso dagli altri, ogni persona è diversa dalle altre, ogni milza è diversa dalle altre: me la caverò? Se la caverà? Cazzo speriamo che non ci sia altra roba sfasciata, minchia se è preso qualche altro grosso vaso o qualche altra roba strana siamo fottuti, porca puttana speriamo bene”.
Fede, spiritualità o paranormale: proprio come in guerra, in cui ognuno si riscopre religioso, ricorda e recita le preghiere di quand’era bambino, ci si affida a tutti i Santi del calendario, a tutte le divinità Indù e a rituali scaramantici personali che possano circoscrivere e semplificare il danno solo all’organo che siamo intenzionati a togliere;
Consapevolezza: ci si rende conto di essere esattamente al nell’occhio di un ciclone, in cui il termine ultimo di tutto questo teatro degli orrori sei tu, e tutti finora si son dati una mano per portare questo povero essere umano moribondo davanti a te, e adesso tocca solo a te tirarlo fuori dalla tomba. Inoltre, occhio del ciclone in doppio senso: sia perché siamo al centro di una piccola apocalisse, sia perché questo è l’unico reale momento di tregua intorno al trambusto generale che tra pochissimo tornerà a investirci;
Ripensamenti: “ma chi cazzo me l’ha fatto fare a cacciarmi in questo casino; potevo fare il dermatologo, o il diabetologo, mavaffanculo”.
“Vai, andate”, risponde l’anestesista. Lo strumentista dà il bisturi al chirurgo operatore che, rapidamente, effettua una laparotomia xifo-sottoombelicale: vale a dire, apre la pancia del paziente praticando un’incisione longitudinale che va dall’apice inferiore dello sterno fino a sotto l’ombelico. Con pochi colpi di bisturi si aprono, nell’ordine, la pelle, il grasso sottocutaneo, la fascia fibrosa che riveste e separa tra loro i muscoli della parete dell’addome, e infine il peritonèo parietale anteriore, che è quella sottile e ultima membrana che racchiude gli organi addominali, separandoli dall’esterno. Se l’emorragia è molto abbondante, basta aprire un piccolo settore di questa membrana per far uscire sangue rosso scuro a fiotti. “Cazzo, aspira, aspetta, aspira qua, ancora, minchia quanto sangue”, e subito compare nel campo operatorio un tubicino di aspirazione che succhia via il sangue cercando per quanto possibile di liberare la visuale e permettere il riconoscimento delle strutture anatomiche. Con poche manovre brusche ma efficaci, si completa l’incisione e “siamo dentro”, dentro la pancia del paziente. “Minchia non si vede un cazzo”, le mani nuotano in mezzo a un lago di sangue color amarena in cui è immerso o galleggia l’intestino e il grasso addominale. All’inizio, se la milza è gravemente danneggiata e c’è davvero tanto sangue, non si capisce quasi niente, per un attimo si è presi dallo sconforto e, per reagire, si va avanti con manovre istintive, scomponendo i gesti e i tempi operatori, cercando di mettere ordine, togliere o spostare dal proprio campo visivo tutto quello che può costituire un elemento di disturbo. Si aspira il sangue o lo si tampona con delle grosse garze, si spostano i visceri, si tolgono a manate delle masse gelatinose di sangue che nel frattempo si è coagulato, quasi nuotando in tutto questo folle marasma, cercando di dirigersi verso la zona in cui sappiamo che risiede la milza: la parte alta e sinistra dell’addome. Se c’è tanto sangue e se il paziente è molto grasso, per migliorare la visuale si fa inclinare il letto verso destra, dal lato dell’operatore. C’è puzza, tanta puzza; in chirurgia si è abituati all’odore della merda, della gangrena, del pus, o di queste tre cose combinate insieme; ma la puzza del sangue è sempre difficile da digerire: il suo odore dolciastro penetra nelle narici e vi rimane a lungo, ancora più di quello della merda. Finalmente, dopo un’ulteriore pulizia, la milza appare. Quasi come un’allucinante caravella di Cristoforo Colombo in un oceano di sangue, budella e grasso, compare in lontananza un’isoletta viola, spesso con una profonda spaccatura sulla sua superficie, e il navigante dice “eccola”, “milza, milza”, terra, terra. Siamo finalmente faccia a faccia con la nostra amica che nel frattempo è diventata nemica, un piccolo passo è compiuto.
Ora vengolo le note dolenti: la sua asportazione. Anche qui, dimenticate le storielle che raccontano i libroni e gli atlanti di chirurgia, in particolare i richiami anatomici: le arterie rosse, le vene blu, gli organi belli colorati e distinti tra loro, “la milza è un organo che può essere suddiviso in uno o più lobi, mantenuto in sede da tutta una serie di mezzi di fissità con gli organi peritoneali circostanti” ecc ecc. Tutte puttanate: quello che in questo momento ci interessa realmente è il concetto che esistono due tipi di milza: le milze mobili e le milze fisse. Cosa vuol dire? Molto semplicemente, le milze mobili sono meno attaccate agli organi vicini, e dunque risultano più facilmente asportabili; per le milze fisse avviene il contrario, sono tenacemente attaccate alle strutture anatomiche vicine e può essere molto più difficile rimuoverla senza provocare danni ad esse.
Se la milza è mobile, navighiamo in acque relativamente calme. Una volta che abbiamo guadagnato una visuale sicura, e il chirurgo-aiuto ha divaricato bene la pancia il campo permettendoci di avere il controllo almeno visivo della situazione, si procede al primo momento fondamentale dell’intervento: la lussazione, cioè il suo spostamento forzato dalla zona in cui si afferra la milza con la mano sinistra, mentre con la destra si “grattano”, tirandoli e strappandoli gradualmente, i punti in cui si attacca alla parete laterale esterna dell’addome, per mobilizzarla e farla avvicinare maggiormente a noi, quasi come un animale diffidente. È una manovra non molto elegante, anzi, abbastanza brusca, ma in chirurgia d’urgenza e con litri di sangue in pancia non c’è molto tempo per abbandonarsi a inutili virtuosismi tecnici da Mozart del bisturi. Si passa quindi alla sezione dei legamenti anteriori, cioè delle sottili membrane che la ancorano a stomaco, pancreas, colon e rene sinistro. Una volta che la milza è resa ancora più mobile, si è pronti per il suo sacrificio. Una volta liberata dagli organi circostanti, infatti, le uniche strutture anatomiche che la tengono ancora in sede sono i suoi due vasi sanguigni, e ora bisogna agire proprio come se dovessimo tagliare un albero. La mano sinistra del chirurgo operatore riprende quindi saldamente la milza (o i pezzi in cui è stata frammentata dal trauma), ancora sanguinante, stringendola e tirandola verso l’alto, esponendo e scoprendo l’arteria e la vena che penetrano al suo interno. La mano destra prende una grossa pinza emostatica con cui chiude insieme questi due vasi sanguigni, fermando l’emorragia. Una forbice taglia in un colpo solo arteria e vena, proprio come si fa col cordone ombelicale nel neonato, e la milza è definitivamente fuori combattimento. “Pezzo”, dice il chirurgo voltandosi verso lo strumentista e consegnandogli la milza fracassata e ormai inoffensiva, che verrà riposta in un contenitore di formalina e inviata per esame anatomopatologico. Si riprende ora la pinza emostatica con arteria e vena “appese”, e sotto la sua guida le si chiudono una per una legandole con dei fili o dei punti. È il momento dell’emòstasi, cioè il controllo del sanguinamento residuo, Si esplora quindi tutto il resto della cavità addominale per escludere la presenza di lesioni traumatiche agli altri organi e per far pulizia del maggior numero possibile di residui di sangue. Si lava con alcuni litri di soluzione fisiologica e, se necessario, si applicano delle sostanze che facilitano il blocco di ulteriori sanguinamenti nel punto dove c’era la milza. Si posizionano infine uno o due tubi di drenaggio in silicone, sia per “spurgare” che come “spia” per nuovi eventuali sanguinamenti, e si chiude l’addome nei suoi diversi strati anatomici con dei punti. L’intervento è concluso e il paziente è salvo.
Se invece la milza è fissa, le cose cambiano: diventa molto più difficile, in quel mare di sangue, identificare con sicurezza le strutture anatomiche, per cui aumenta in modo esponenziale il pericolo di provocare danni agli organi vicini durante le manovre di liberazione. È un attimo, infatti, lesionare gli organi circostanti e provocare disastri di cui il paziente NON ha alcuna necessità. L’intervento, in questo caso, va condotto con ancora più scrupolo attenzione della norma, quindi in condizioni di maggiore stress, considerata la situazione.
Una domanda può sorgere spontanea: se negli ultimi anni la moderna medicina ha fatto passi da gigante, perché dobbiamo per forza sacrificare un organo in questo modo? Non può essere salvata, riparata e riposta nella cavità addominale per continuare placidamente la sua attività? La risposta è “sì, ma entro certi limiti”. Se la lesione è piccola e circoscritta, e soprattutto abbiamo molta esperienza sul campo, la milza può essere riparata. In tutti gli altri casi, se le lesioni sono profonde e l’organo è gravemente lesionato, anche se si riesce a controllare l’emorragia non ha senso tenere una bomba a orologeria in pancia, che può esplodere riprendendo a sanguinare in qualunque momento, anche a distanza nelle settimane successive. Infatti, a tale proposito esiste una legge non scritta secondo cui “la milza più sicura è la milza in formalina”.
Una piccola precisazione: tecnicamente, a parte alcuni casi, non è un intervento di elevata complessità tecnica, per intenderci, neanche lontanamente paragonabile a un trapianto di cuore. Per un chirurgo del trauma, o di guerra, togliere una milza è un gioco, quasi una formalità routinaria, un “piccolo guaio” quasi risibile se paragonato a un “grosso guaio” di un’emorragia catastrofica e inarrestabile proveniente da altri organi. Ma per i giovani chirurghi rappresenta una sorta di battesimo del fuoco, un intervento che può capitare a chiunque e in qualunque situazione, che va imparato e gestito se non si vuole avere qualcuno sulla coscienza.
Come capita a molti chirurghi, anche per il sottoscritto c’è stata “una prima volta”. “La mia prima milza” la ricordo molto bene, un incidente stradale di un signore ubriaco. Ma anche (e molto di più) la seconda: una milza patologica a causa di una malattia del sangue, pesante dieci volte il normale, completamente spaccata dopo una banalissima caduta da inciampo. Entrambe operate con la pelle d’oca, con poca esperienza sulle spalle e, dato il convulso carosello della situazione di emergenza, senza che il chirurgo “anziano” fosse presente in sala operatoria nel momento principale dell’intervento. Esperienze sicuramente formative ma traumatiche, che comunque allargano le spalle. Ora, dopo qualche anno e qualche milza in più, riesco a insegnare l’intervento ai più giovani, ma l’angoscia rimane sempre, è inevitabile.
Tutta questa bella (?) storiella, sempre se non vi siete addormentati e siete riusciti ad arrivare fino alla fine, ci può insegnare qualcosa.
Una delle cose che più spesso penso durante questi interventi è che, solo poche ore prima, la persona coinvolta non avrebbe mai potuto neanche lontanamente concepire cosa gli sta accadendo. La sua vita, la sua routine quotidiana, i suoi impegni, e in men che non si dica si ritrova catapultato in una sala operatoria, incosciente, con la pancia aperta come un’anguria e le budella fuori, sangue dappertutto, chirurghi che imprecano e infermieri che corrono da una parte all’altra. Belle ragazze con la pelle maniacalmente curata, ora contusa, escoriata, livida, a bagno nel proprio sangue e nelle proprie secrezioni corporee. Bambini che un attimo prima giocavano spensierati (la caduta dalla bicicletta o dal letto a castello sono tra le prime cause di rottura di milza in questa fascia di età), e ora vengono trasportati pallidi e tremanti in un ambiente per loro totalmente estraneo.
Il corpo umano è fragile, terribilmente fragile. Quell’entità maligna e imprevedibile chiamata con reverenza “il trauma” ci strappa via dal mondo fatato delle nostre sicurezze e della nostra illusione di immortalità, trasportandoci improvvisamente su un tavolo operatorio, se va bene. Basta un niente, anche un incidente banale, e quell’equilibrio precario può andare in frantumi. Dietro l’involucro asettico della pelle si nasconde un inaspettato ammasso di visceri informi e mollicci che non hanno alcuna relazione con l’aspetto esteriore, ma lo condizionano comunque in maniera indissolubile. Quando questi visceri si mischiano con sangue, merda e liquidi biologici, è il caos. Siamo delle strane macchine di carne e frattaglie sospese in un delicatissimo equilibrio fisiologico, che una malattia o un trauma ci può strappare in un istante, nelle maniere più disparate possibili. La chirurgia, il suo bizzarro contatto con un mondo nascosto e imprevedibile, ci fa realizzare ancora di più la nostra fragilità, il confine estremamente labile tra quello che chiamiamo benessere e l’abisso.
Uno dei modi più impressionanti e sconvolgenti per renderci conto di quanto la dimensione fisica influenzi quella mentale è avere a che fare con chi ha problemi psichiatrici: minime alterazioni di molecole e circuiti cerebrali possono generare reazioni a catena che scombussolano la cosiddetta normalità. Nel campo della chirurgia, soprattutto quella del trauma, tutto questo è ancora più amplificato, meno sottile e infinitamente più grossolano: un corpo umano poco prima florido e sano, ora mutilato o smembrato, che arranca e cerca di recuperare le ultime riserve vitali anche inaspettate aggrappandosi disperatamente all’istinto di sopravvivenza.
La milza è un paradigma di questa condizione: un organo piccolo e silenzioso, nascosto, marginale, comunque non casuale, che partecipa attivamente alle funzioni vitali dell’essere umano; ma è anche un organo fragile, imprevedibile, subdolo, una sorta di guardiano che ci apre gli occhi e ci sbatte davanti i nostri limiti e la nostra realtà, catapultando la nostra fragile navicella in un letterale e tempestoso oceano di sangue.
Proprio per questo, è bene tuttavia non chiudere del tutto la porta all’ottimismo. Se si entra in quest’ottica, si smette di pensare che tutto questo contorto groviglio di budella fa paura o schifo, non si prova più ribrezzo per situazioni o odori che farebbero accapponare la pelle. Si inizia a ribaltare la propria visione in senso quasi zen, si acquista la consapevolezza che tutto, anche la merda, ci fa sopravvivere. Ma la sensazione senza dubbio più potente è che, in un delirio schizofrenico rispetto a quello che scrivevamo solo poche righe sopra, nelle situazioni al limite dell’umano il corpo umano riesce anche a trovare le risorse per adattarsi a questa condizione e, spesso, a superarla. La chirurgia e, più in generale, la scienza medica, possono sicuramente dare una mano anche fondamentale per uscire da condizioni critiche, ma nella maggior parte dei casi la battaglia principale spetta alla resistenza dell’organismo.
Il chirurgo e l’anatomopatologo, figure distanti anni luce eppure qui straordinariamente simili, si meravigliano allo stesso modo di come eventi anche di piccola entità possano provocare disastri irrimediabili in un corpo umano, e allo stesso tempo di come il corpo stesso possa sopravvivere a traumi o patologie aberranti che ne sovvertono la normale struttura fisiologica.