Il grattauccello


anni fa mi era venuta un’idea per una storia ambientata all’ultimo piano di un grattacielo. il piano restava isolato, senza che il motivo venisse spiegato, quindi gli impiegati di un ufficio dovevano sopravvivere come se fossero rimasti intrappolati in cima a una montagna. la cosa frustrante è che dalle finestre non vedevano nulla, solo le cime di altri grattacieli. dopo un po’ il cibo finiva, iniziavano a industriarsi in vari modi. c’era poi un’evoluzione nella trama  e nei personaggi, si andava verso la violenza, l’istinto di sopravvivenza, tipo che i protagonisti cercavano di catturare gli uccelli per mangiarseli, poi litigavano tra loro, si ritornava ad essere selvaggi e altre cose tipo signore delle mosche.  impiegati con la cravatta intorno alla testa che aggredivano distributori di cibo per mangiare gli ultimi snack, le donne violentate, ecc.

all’epoca mi sembrava una cosa divertente pensare queste cose, quindi avevo come si dice “caratterizzato” ogni personaggio, studiato le varie dinamiche, ecc. ecc. ma soprattutto mi ero documentato sui grattacieli, dato che il palazzo più alto dov’ero stato era alto 8 piani (solo 2 anni fa sono arrivato all’undicesimo piano di un altro palazzo, finora il punto più alto). quindi scoprii la fantastica epoca d’oro dei grattacieli quando, principalmente in america, si faceva a gara a chi ce l’aveva più alto. gara che oggi è passata in altre zone del pianeta, tipo dubai.

in quel periodo pensavo che per scrivere bene le cose bisognasse fare delle ricerche, quindi passai un paio di mesi a leggere tutto il leggibile sui grattacieli. scaricavo la storia di singoli edifici, le planimetrie, migliaia di foto, insomma alla fine avevo materiale per due o tre tesi sull’argomento, 30 pagine di personaggi, 4 o 5 pagine di possibili interpretazioni della storia, insomma c’era tutto, tranne la storia. e alla fine, come quasi ogni volta, lasciai perdere pensando che non ne valeva la pena.

oggi ho trovato questo bel pezzo del guardian (anticipazione di un libro) dove si parla appunto dei grattacieli, e mi trovo d’accordo con l’autore quando dice che li odia  ma allo stesso tempo ne adora la loro “Promethean swagger”, che immagino si possa tradurre con arroganza, spavelderia prometeica, spacconeria mitologica insomma. c’è l’idea, nel grattauccello, non di scalare la montagna, che già è segno di arroganza umana, ma di costruirla, la montagna. e per salirci ci facciamo un comodo ascensore.

quest’idea folle della verticalità eccessiva non ha mai smesso di affascinarmi e infastidirmi. io poi, che da bambino disegnavo ossessivamente (ma davvero eh) costruzioni rigorosamente sotterranee. per me la direzione giusta era quella: verso il basso. quindi quest’idea di andare verso il cielo, non tanto verso dio al quale non ho mai creduto, ma verso quest’assurda e pericolosa opposizione alla gravità, controcorrente insomma, mi turbava e mi turba ancora, e allo stesso tempo mi inebriava. mi dava le vertigini.

la mia storia dei tipi intrappolati all’ultimo piano di un grattacielo alla fine non mi convinceva perché era banale. cioè era bella, ma mentre mentre la pensavo e scrivevo mi sembrava di averla già sentita o letta. un po’ perché appunto ho passato due mesi a pensare solo a quello, quindi mi sembrava così ovvio che qualcuno restasse isolato dal resto del mondo all’ultimo piano di un palazzo che non c’era bisogno di scriverla, un po’ perché come spesso mi capita ero uscito fuori dalla mia linea temporale ed ero stato copiato da qualcuno nel passato.

infatti leggendo l’autobiografia di buster keaton ho scoperto che negli anni ’20 (cioè il periodo in cui c’era la battaglia dei grattacieli soprattutto a new york) era stata pensata una storia simile, anche se non è mai stata realizzata. in questa storia buster porta una ragazza a vedere il panorama in cima a un grattacielo in costruzione. viene proclamato uno sciopero e gli operai alla base del grattacielo tolgono la corrente. in pratica buster e la ragazza restano intrappolati in cima al grattacielo senza che nessuno sappia che sono lì. come sempre nei film di keaton, si passa da una situazione in cui lui è inadeguato, a una fase di adattamento seguita poi da una fase di sovra-adattamento, dove la situazione assurda sembra normalissima.

quindi buster costruisce un riparo usando lastre, viti, travi e altro materiale di cantiere, un recipiente per raccogliere l’acqua piovana e, anche qua, una trappola per catturare gli uccelli di passaggio. dunque anche loro, in cima alla civiltà, devono fare i conti con la sopravvivenza. perché il film non è mai stato realizzato? perché l’autore non aveva trovato un finale abbastanza convincente, in particolare non sapeva come far scendere i due protagonisti.  che poi forse era anche il mio problema.

paradossalmente entrambe le storie, la mia e quella dell’autore di buster (non ricordo il nome, sherwood forse), sono andate troppo in alto e sono rimaste bloccate lassù, senza sapere come scendere.

 


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