Io so ciò che nessuno sa


L’altra notte mi è apparso Mario Monti. Mi ha detto: “Io so ciò che nessuno sa, e cioè che non hai mai finito un album degli Autechre”.

Era nudo.

Sul petto aveva tatuata la frase “Io ♥ riciclo”.

E sulla pancia la scritta “Istruzioni per costruire uno scaffale salvaspazio” con una freccia che puntava verso il pene, mah.

“Un momento!” ho detto a voce alta, da solo, nel bagno di un ospedale, tutto rosso, preso dallo sforzo. “Questo non è vero! Mario Monti non mi è apparso, sto inventando tutto!”

“È vero, però lo stai pensando” mi ha risposto l’altro me dentro lo specchio di fronte (sì, ero seduto sul water; cagavo. Ho messo la carta igienica sulla tavoletta, mi sono lavato le mani per 30 secondi e uscendo ho aperto la porta con il gomito. La notte ho pregato).

L’ospedale era così grande che ho attraversato decine di sale d’attesa tutte uguali; mi sono perso, varie volte. Tornavo indietro e le persone sedute cambiavano, forse perché era arrivato il loro turno, dunque non riuscivo a orientarmi, l’arredamento e la struttura delle stanze erano gli stessi, ma gli unici possibili punti di riferimento, cioè le persone, mutavano forma e colore, allora ho pensato di prendere come riferimento il bagno dove ero appena stato, ma ho scoperto che ce n’erano due identici in due sale d’attesa identiche, e in entrambe c’era la stessa signora con gli occhialoni e il cappotto rosso! La signora si dev’essere spostata, forse si è accorta di aver sbagliato ambulatorio, forse voleva complicarmi le cose.

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A proposito dei sogni:

Mi capita a volte di svegliarmi con idee geniali in testa, convinto di aver fatto sogni superiori al normale materiale onirico grezzo di routine quasi sempre noioso. Sogni con personaggi, intrecci e atmosfere sublimi, che vorrei poi tradurre in racconti, e già mi immagino a spiegare a qualcuno che mi chieda ma come ti è venuta quell’idea, è davvero stupenda, eh guarda, se te lo dico non ci credi, no dai, dimmelo, e va bene: mi è venuta in sogno! Ehhhh la madonna, ma che mondo onirico affascinante, che meraviglia, e io che minimizzo, ma che vuoi che sia, sapessi, anzi i sogni migliori non li ricordo, ho sognato capolavori ma sono andati perduti, che peccato. Solo che la verità è un’altra. La verità però è che la notte soffro spesso di insonnia e dunque ascolto audio libri, ma spesso me ne dimentico, allora quando mi sveglio ho in mente queste storie scritte da Cechov, Gogol, gente così, e mi ci vuole qualche ora, a volte qualche giorno, per ricordarmi di averle sentite.

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La maggior parte delle mie riflessioni filosofiche hanno come base l’esperienza sociale in pizzeria. Ad esempio: ho notato che quando si mangia la pizza in compagnia e si addenta la prima fetta tutti abbiamo la tendenza a dire o che è buona o che “non è male”, anche quando non è vero. Poi, finita la pizza, c’è sempre qualcuno che per primo dice “comunque questa pizza non era un granché” oppure che era scarsa, o che faceva proprio schifo, e gli altri – magari non tutti, ma buona parte – concordano, annuiscono (anche Mario Monti fa sempre così). Perché non lo diciamo subito? Un’ipotesi potrebbe essere che non abbiamo abbastanza informazioni: una fetta è solo una fetta, è troppo presto per dare un giudizio, e quindi la valutazione reale è quella finale, quando abbiamo mangiato tutta la pizza. Ma ragionando così dovremmo dire se è un vino è buono solo dopo averne bevuto una bottiglia intera (io faccio così, in effetti) o che un partito non era male dopo che ha completato due legislature. Oltretutto la prima fetta di pizza ci dà una soddisfazione immediata, perché avevamo fame, perché ha quel mix di sapori che riconduciamo all’esperienza pizza – cioè ad esperienze-pizza precedenti e piacevoli – e quindi non stiamo dicendo che quella pizza è buona, ma che mangiare la pizza è buono, anzi, stiamo dicendo in generale che mangiare è buono, perché biologicamente ci allontana dalla sofferenza e dalla morte. Ma la spiegazione non è nemmeno questa. Secondo me questo fenomeno si spiega così: anche se la prima fetta ci fa schifo, non lo diciamo subito per non prenderci la responsabilità di rovinare l’esperienza agli altri. Primo, perché agli altri potrebbe piacere. Secondo, perché magari sono gli altri ad aver scelto la pizzeria e dire che la pizza non è buona è come dire che è colpa loro; ma il discorso vale anche se la pizzeria l’abbiamo scelta noi: non vogliamo ammettere l’errore. Invece quando la pizza è finita e l’esperienza è conclusa, ci sentiamo di poterlo dire, ormai, cazzo te ne frega. Non abbiamo più la responsabilità di rovinare l’esperienza durante, ma dopo. E qui è facile l’obiezione: ma anche dirlo dopo vuol dire rovinare l’esperienza, ma non è vero, perché ormai è passata e sappiamo che presto ce ne sarà un’altra, dato che prendiamo la pizza spesso, perché siamo italiani e abbiamo i baffi e le tasche piene di camorra.

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Non mi sento quasi mai “italiano”, a parte quando sono in piedi davanti a una pentola di acqua bollente con un mazzo di spaghetti in mano e con sguardo matematico chiedo a qualcuno “quanta fame hai?”.

E anche quando mi lamento dell’aria condizionata e della gente che non sa fare la fila, ma intanto pure io provo a saltarla, perché “se semo stufati di esse boni e generosi”.

 

 


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