La fotografia


(recuperando bozze)

Il sole era alto, era quasi ora di pranzo, ma lui non avrebbe mangiato prima del pomeriggio, quando sarebbe tornato all’ovile. Si era dimenticato di portarsi da mangiare e, anche se ora aveva fame, ormai non poteva fare altro che aspettare. Le pecore brucavano l’erba intorno a lui e per un attimo immaginò di fare la stessa cosa. Ma odiava mangiare l’insalata, figurarsi l’erba. Per fortuna aveva dell’acqua, almeno quella. Il vecchio di certo non sarebbe passato a controllare come stava. Si faceva vedere raramente. Nell’ultimo mese però era passato diverse volte, forse perché gli doveva due paghe arretrate e voleva controllare che lui per vendetta non rubasse qualcosa. Ma c’era poco da rubare, solo le pecore. Nella catapecchia dove dormiva, non lontano dal campo dove pascolava le pecore, c’erano soltanto una branda con un materasso sottile sottile, delle bottiglie d’acqua, un pentolino, qualche attrezzo da cucina, un fornello a gas e una torcia per la notte. Ci fosse stato altro, allora sì che l’avrebbe rubato.

L’ultima volta, due giorni prima, il vecchio era venuto che era quasi buio. Aveva visto i fari della macchina da lontano, poi l’aveva visto scendere da solo con una borsa in mano. Era molto vecchio, più vecchio di suo zio, forse aveva settant’anni. Avrebbe potuto colpirlo, rubargli i soldi, rubargli la macchina. Ma il vecchio aveva sempre un fucile nascosto sotto il sedile. Lo sapeva perché gliel’aveva fatto vedere lui. “Non si sa mai cosa può capitare” gli aveva detto ridendo mentre guidava, la prima volta che l’aveva portato in campagna. Lui aveva capito. Era un avvertimento. Lui aveva solo un coltello, ma era più giovane e forte di lui.

“Ti ho portato un cambio di vestiti” aveva detto il vecchio porgendogli la borsa. “Qui tutto bene?”
Si era guardato intorno: a parte l’ovile, non c’era nulla per chilometri, non sapeva nemmeno dov’era. Una volta si era fermato un furgoncino di turisti che gli avevano chiesto delle indicazioni per raggiungere il paese vicino, ma lui non gliele aveva sapute dare. Quelli erano rimasti sorpresi, gli avevano detto che erano certi che il paese fosse molto vicino, gli avevano anche mostrato una cartina. “Ci sono segnate tante strade ma non capiamo in quale siamo” avevano detto. Lui aveva guardato la cartina, ma non aveva riconosciuto nessuna strada. Aveva ripetuto “Non so” ed era tornato dentro, all’ombra.

“E manco mi dici grazie?” aveva detto il vecchio mentre lui prendeva la borsa. “C’è anche pane, le sigarette e un po’ di peperoni che ha fatto mia moglie…”
“E i soldi?” gli aveva chiesto lui.
“Ohi, ancora! Ti ho detto di aspettare qualche giorno, tu intanto lavora, poi i soldi arrivano. Che fretta hai? Dov’è che vuoi andare?”
Voleva andare al paese, qualche volta. Diciamo almeno due volte al mese. Voleva lavarsi come si deve, entrare in un bar e bere birra, giocare alle macchinette, fare un giro, magari telefonare a suo cugino. Aveva finito il credito sul cellulare da qualche giorno, aveva chiesto al vecchio di comprargli una ricarica ma quello se ne dimenticava sempre. “Oh, hai ragione” gli aveva detto. “Ascolta, la ricarica te la offro io, te la compro domani. Anzi no, domani non posso che devo andare a fare una cosa… Comunque te la compro, tu stattene buono.”

A conti fatti, gli doveva mille e trecento euro. E ogni giorno rimandava. Si sentiva in trappola, come abbandonato in quel posto di merda dove non vedeva mai nessuno, solo pecore e cani. A volte fumava una sigaretta con qualche altro pastore, ma per la maggior parte del tempo era solo. Non poteva scappare, almeno non finché non riusciva a recuperare le paghe arretrate.

Il vecchio era andato via e quella notte, dopo aver mangiato pane e peperoni e fumato un paio di sigarette, aveva dormito fino all’alba, quando si doveva alzare per fare uscire le pecore. Il lavoro non era difficile, solo molto noioso. Il vecchio gli aveva dato una radiolina da portarsi in giro per non annoiarsi, ma si era rotta subito. Aveva provato a cambiare le batterie mettendo quelle della torcia, ma non funzionava lo stesso, era proprio rotta. Passava anche due o tre giorni senza vedere anima viva e senza parlare mai. Ogni tanto parlava da solo, oppure insultava le pecore e i cani, che a volte picchiava se lo facevano innervosire. Per il resto erano bravi cani. Piccoli, bianchi, abbaiavano tanto ma non erano cattivi. Certo, anche loro sapevano morsicare.

Una notte si era sentito male, forse per qualcosa che aveva mangiato. Secondo lui era l’acqua che dopo un po’ diventava cattiva. Quando apriva le bottiglie di plastica sentiva puzza di marcio, e una notte gli era venuto un forte mal di pancia. Era corso fuori, dietro la capanna, dove si era svuotato completamente. O almeno così pensava. Ma era corso fuori altre quattro volte. Sudava freddo, stava malissimo, pensò di morire lì da solo in mezzo al nulla. Nessuno se ne sarebbe accorto per molte ore, il vecchio l’avrebbe trovato morto e allora forse avrebbe chiamato i carabinieri. O forse l’avrebbe buttato nella fossa, come aveva fatto con una pecora e un cane.

“Secondo quelli io dovrei prendere, chiamare, un casino, la solita burocrazia di merda” gli aveva spiegato. “Io metto sempre tutto in questa fossa e chi s’è visto s’è visto, capito?”
Non sapeva cos’era la burocrazia, ma quella notte si era immaginato anche lui in quella fossa, a marcire sotto il sole del giorno dopo con formiche e mosche a mangiargli la lingua e gli occhi. Chissà se suo cugino l’avrebbe saputo.

Allora aveva preso il cellulare per chiamare il vecchio, voleva dirgli che stava male e che aveva bisogno di un dottore. Ma quello non aveva risposto. Alla fine anche quella notte era passata e il giorno dopo stava meglio. Non era morto. Ma si era sentito abbastanza solo da poter morire senza che nessuno lo sapesse, solo i cani e le mosche.

Si sdraiò all’ombra dell’ulivo, poggiando la schiena contro il tronco. Una leggera brezza muoveva i rami sopra di lui e nonostante l’ora si stava bene. Quello era il punto migliore per controllare il gregge, era all’ombra e da lì poteva vedere tutto il campo. Da autunno a primavera era un grande campo di carciofi, ma da maggio in poi le piante si seccavano e lui poteva portarci le pecore.
Aveva gli occhi socchiusi e si stava per addormentare, quando sentì i cani abbaiare. Non abbaiavano mai senza motivo, quindi alzò la testa per guardare.

Il campo era costeggiato da un canale di irrigazione e da una fitta recinzione di canne e rovi. Era impenetrabile, come un muro. Da fuori era impossibile vedere dentro e da dentro era impossibile vedere fuori. C’era solo un’entrata, di solito sbarrata dalla rete di un letto arrugginita, e qualche spiraglio nella vegetazione. I cani abbaiavano verso la strada, una delle tante stradine di campagna dove non passava mai nessuno, solo qualche macchina ogni tanto. Abbaiavano e avanzano, come se seguissero qualcosa che percorreva quella strada. Non era una macchina, andava troppo piano, forse era una bicicletta? Una volta, era mattina presto, aveva visto un vecchio col motorino fermarsi per tagliare delle canne.

Si alzò e si incamminò in quella direzione. Non richiamò i cani, li lasciò abbaiare, prima voleva vedere di cosa si trattava. Aveva quasi attraversato il campo quando vide i cani fermarsi. Qualsiasi cosa stessero seguendo, anche la cosa dall’altra parte delle canne si era fermata. Si avvicinò lentamente, senza fare rumore, e si nascose dietro le pareti del canale di irrigazione. Tra le canne riusciva a vedere la strada, ma non la cosa che la stava percorrendo. Però sentiva. Erano delle risate, voci di ragazzi e ragazze.

Non erano del posto, questo lo capì subito, forse erano dei turisti. Poco dopo li vide arrivare: andavano in bicicletta, di tanto in tanto si fermavano, ridevano e facevano dei suoni con la bocca per richiamare i cani. Si fermarono proprio di fronte a lui, ma non lo notarono perché era ben nascosto dalle canne e guardavano dall’altra parte, dove c’erano more e fichi d’India lungo tutta la strada.
“Dai Fede, fammi una foto con i fichi d’India!”
Tre ragazze e due ragazzi, avevano più o meno la sua età, venticinque anni o poco più. Uno dei ragazzi stava facendo un video con un cellulare, mentre una delle ragazze scattava fotografie con una grossa macchina fotografica nera. Indossavano pantaloncini molto corti, infradito e canottiere. Le ragazze erano molto belle e allegre, una di loro aveva un grosso cappello di paglia.
In quel momento prese la decisione.

Non sarebbe stato difficile: i ragazzi non sembravano dei duri, doveva solo prenderli di sorpresa. Avrebbe afferrato una delle ragazze, le avrebbe messo un braccio intorno al collo e con l’altro avrebbe puntato il coltello minacciando gli altri di ucciderla.
Avrebbe urlato: “Datemi tutto o la uccido!”.
E si sarebbe fatto dare tutto: cellulari, macchina fotografica, soldi. Poi li avrebbe fatti spostare tutti da una parte e col coltello avrebbe bucato le ruote delle biciclette. A quel punto sarebbe scappato via, non gliene fregava niente del gregge. Nessuno si sarebbe accorto di niente, là intorno non c’era anima viva. Si sarebbe potuto fare cinque, seicento euro o forse anche di più. Non poteva sapere quanti soldi avevano quei ragazzi nei portafogli, e non sapeva nemmeno quanto valeva la macchina fotografica. Ma sapeva che i soldi gli servivano. Con quei soldi sarebbe potuto andare in paese, da lì prendere il treno e raggiungere suo cugino nella città, comprarsi dei vestiti, andare a mangiare come si deve. Non ne poteva più della campagna e del vecchio che non lo pagava.
“Perché non raccogliamo le more?” disse uno dei ragazzi assaggiandone una. “Cazzo, sono buonissime. Raccogliamo le more!”
“E poi dove le mettiamo? Quelle macchiano, mica puoi metterle in tasca.”
“Le mettiamo nel cappello della Fede.”
“Non credo proprio, la prossima volta ci portiamo una busta.”
“Ma non ripasseremo mai più in questa strada!”
“Questo è vero…”
“Comunque non saranno le uniche more di tutta l’isola, no?”

Risalirono sulle bici. A quel punto capì che doveva fare in fretta. Anche senza correre sarebbe arrivato prima di loro all’entrata del campo, ma non doveva perdere tempo. Passò attraverso le pecore prendendole a calci per farle spostare velocemente. Tirò fuori il coltello dalla tasca dei pantaloni. L’aveva affilato da poco. Non avrebbe voluto ferire qualcuno, ma l’avrebbe fatto, se fosse stato necessario. Se tutto fosse andato bene non ce ne sarebbe stato bisogno. I ragazzi sarebbe andati via a piedi, la casa più vicina era a quindici minuti, e nel frattempo lui sarebbe scappato, anche se non sapeva bene dove. Ma non era importante: poteva nascondersi da qualche parte per la notte e poi trovare una strada che portasse al paese.

Si avvicinò alla parete di canne e rovi. Poteva sentirli, stavano arrivando. Ogni tanto si fermavano per scattare fotografie e si sentiva qualcuno dire: “Allora? E basta! Andiamo avanti!”.
Pedalavano lentamente e qualcuna delle ragazze restava sempre indietro. Per qualche metro lì segui camminando parallelo a loro, separati solo dalla vegetazione. Accelerò il passo per arrivare all’entrata prima di loro, ma la ragazza con il cappello di paglia si mise a correre sui pedali e lo superò, arrivando all’entrata del campo quando lui era ancora a qualche passo di distanza.
“Noooo!” la sentì urlare. “Ragazzi c’è un gregge di pecore qua, è un posto bellissimo! Venite a vedere!”

Si immobilizzò. Se doveva farlo, doveva farlo ora: poteva prendere la ragazza e minacciarla. Solo che così gli altri sarebbero potuti scappare via. Dovevano essere tutti insieme: o così o niente. Non sapeva cosa fare. Nel frattempo gli altri ragazzi raggiunsero la ragazza con il cappello e si fermarono davanti alla rete che sbarrava l’entrata del campo.
“Bellissimo, guarda quell’ulivo lì! Troppo figo, guarda quante pecorelle…”
“E’ un tipico paesaggio sardo.”
“Molto tipico!”
I cani abbaiavano, ma non facevano paura e i ragazzi li ignoravano. Lui era nascosto dietro un cespuglio, con il coltello in mano. Stava sudando ma non era agitato, non lo era mai.
“Ma se entriamo per fare qualche foto? Secondo me si può, che problema c’è?”
“E se il pastore si incazza?”
“Ma figurati, ci parliamo, chiediamo il permesso. Se non si può pazienza.”
I ragazzi decisero di entrare. Posarono le biciclette a terra, al lato della strada, e scavalcarono la rete arrugginita. A quel punto capì che doveva uscire dal cespuglio, ormai loro erano dentro. Non aveva ancora deciso cosa fare o cosa dire, ma non ebbe il tempo di pensare perché la ragazza con il cappello di paglia, vedendolo, parlò prima di lui. “Ciao!” disse. “Scusa se siamo entrati… Sono tue le pecore? Possiamo fare qualche foto? Ti prego dimmi di sì!”
Gli altri lo salutarono più timidamente mentre si guardavano intorno e cercavano di avvicinare i cani che nel frattempo si erano fatti più docili.

“Va bene” rispose. Il suo viso era inespressivo. Si spostò a un lato come per farli passare, in modo da stare alle loro spalle e poterli controllare. La ragazza gli fece un grande sorriso: “Grazie! No davvero, se disturbiamo le pecore ce ne andiamo” disse. “Diccelo se disturbiamo, vogliamo solo fare qualche foto. Questo posto è una figata.”
“Guarda quest’ulivo” disse uno dei ragazzi. “Cazzo, avrà un secolo, forse anche di più.”
Le ragazze erano tutte snelle e carine. I due ragazzi non erano grossi, uno aveva la barba e gli occhiali, l’altro i capelli lunghi e dei tatuaggi sulle braccia. Se avesse voluto avrebbe potuto prenderli alle spalle, accoltellarli e poi buttarli nella fossa dove il vecchio buttava tutto. Se però fosse passata qualche macchina avrebbe notato le biciclette lungo la strada. E poi le ragazze erano tre: e se fossero scappate in direzioni diverse? Sarebbe stato impossibile rincorrerle tutte.
“Beeeeeee!”
Uno dei ragazzi si mise a quattro zampe davanti a una delle pecore.
“Beeeeeee! Eddai rispondi!”
“E smettila di fare lo scemo, Mauri” disse una delle ragazze. “Così le spaventi e poi magari non fanno il latte. Queste le usate per fare il latte, vero?”
Gli avevano fatto una domanda, ma lui non rispose. Aveva rimesso il coltello in tasca e guardava per terra. Li sentì ridacchiare, forse lo prendevano in giro.
“Ma capisci l’italiano? O parli solo il sardo?” chiese una delle ragazze.
“Ma allora è vero che i sardi sono molto silenziosi…” disse un’altra.
“Non sono sardo” disse.
“E di dove sei?”
“Rumeno.”
“Ah” disse la ragazza con il cappello di paglia. Si guardò intorno come se pensasse a qualcosa da dire e poi gli chiese: “E ti piace questo posto? Ti piace lavorare qui?”
“Sì” rispose lui, perché era la risposta più semplice da dare.
“Diego, fammi una foto con l’ulivo” disse un’altra delle ragazze.
Lui si allontanò, andò in mezzo alle pecore, ne prese una e finse di controllarle una zampa, ma in realtà continuava a guardare i ragazzi. Avevano vestiti buoni, molto puliti, e ridevano a ogni frase. Erano sempre molto allegri, le ragazze sembravano molto felici. Tutte quelle risate lo mettevano a disagio. Notò che la ragazza con il cappello di paglia lo stava osservando e poco dopo si avvicinò da lui.
“Cosa facevi a quella pecora?” chiese.
“Controllavo la zampa” rispose.
“Perché? Cos’ha?”
“Sembrava…” fece un gesto con la mano perché non gli veniva la parola. “Ferita. Ma non è ferita.”
“Come ti chiami?”
La domanda lo prese alla sprovvista. Decise di non dire il suo vero nome.
“Stefan” rispose.
Era il nome di suo cugino.
“Bel nome” disse la ragazza. “Io mi chiamo Federica. Loro sono Stefi, Silvia, Diego e Maurizio”. Gli indicò i ragazzi che in lontananza scherzavano con i cani intorno all’ulivo.
“Siamo in un bed and breakfast qua vicino, siamo usciti per vedere la campagna. Così, per vedere la famosa campagna sarda! E’ molto bello qui. E poi non possiamo stare sempre in spiaggia.”
Non sapeva cos’era un bed and breakfast e non aveva capito nemmeno tutto quello che aveva detto la ragazza, quindi annuì distrattamente e riprese a guardare per terra.
“E’ da molto tempo che sei qui?” chiese lei.
“Da stamattina presto.”
Lei si mise a ridere. “No, intendevo qui nel nostro paese.”
“Un anno.”
“Però parli bene l’italiano. Bravo!”
“Così così” disse lui.
Lei si girò per scattare una foto a una pecora. Aveva un corpo molto bello, ma non gli era piaciuta la sua risata.
“Quante sono?” chiese la ragazza indicando le pecore.
“Centoventi” rispose lui.
“Uh, molte! Cioè, non lo so. Sono molte? Ma non sono tue, vero?”
“No.”
“E gli hai dato dei nomi?”
Non capì la domanda. “Cosa?”
“Alle pecore, hai dato dei nomi alle pecore?”
“No.”
“Fede! Fede!” Gli altri ragazzi la chiamavano. Lei tornò da loro, lui si avvicinò per sentire meglio cosa si dicevano, anche se non riusciva a capire tutto.
“Facciamoci una foto tutti insieme in mezzo alle pecore” disse il ragazzo con i capelli lunghi. “Dai cazzo, fa morire! Poi la mettiamo su Facebook e scriviamo ‘Saluti dalla Sardegna’.”
“Ah ah!”
Gli altri scoppiarono a ridere e dissero che era una bellissima idea.
“Stefan!” disse la ragazza con il cappello di paglia. “Ci puoi fare una foto con le pecore? Scusa eh, poi ti prometto che non ti rompiamo più e ce ne andiamo, giuro!”
“Va bene” disse.
Andarono in mezzo alle pecore, lei gli passò la macchina fotografica e gli spiegò come usarla. Non ne aveva mai usata una prima. Aveva fatto delle foto con il cellulare di suo cugino, qualche volta, ma questa era una vera macchina fotografica, nera, lucida, pesante, con un obiettivo bello grosso e un sacco di tasti.
“Scattane due o tre, poi vediamo come sono venute e nel caso ne facciamo un’altra, ok?” disse la ragazza.
“Va bene” disse lui.
I ragazzi si misero in posa tra le pecore. Non sapeva come tenere la macchina fotografica in mano. Chissà quanto vale, pensò. Guardò nel mirino e schiacciò il tasto come le aveva detto la ragazza.
“Tienilo premuto leggermente, quando senti il bip schiaccia forte!” disse la ragazza.
Le pecore però scappavano, perché i ragazzi non stavano fermi e muovendosi le spaventavano.
“Fermi” disse.
Quando le pecore si calmarono scattò due foto. La ragazza si avvicinò per guardarle e disse che andavano benissimo.
“Stefan, ora sei una fotografo.”
“Bella Stefan, il pastore fotografo!” disse uno dei ragazzi.
Lui restò inespressivo e disse solo “Va bene”.
“Aspetta, aspetta” disse il ragazzo con la barba. “Ora dobbiamo farne una con lui. Scusa è stato così gentile, facciamoci una foto tutti insieme con Stefan. La faccio io, dai.”
“C’è l’autoscatto” rispose la ragazza con il cappello di paglia.
“Dai, figata” disse un’altra delle ragazze.
“Va bene” disse anche questa volta.
Non sapeva cosa dire. Loro parlavano sempre per primi e lui non faceva in tempo a rispondere. E poi erano sempre sorridenti e sembrava che avessero sempre ragione.
Sistemarono la macchina fotografica sopra una pietra, si misero in posa e la ragazza con il cappello arrivò di corsa dicendo “Scatta tra dieci secondi!”.
Lei si mise al suo fianco, mettendo un braccio sopra alle sue spalle.
“Sorridi, Stefan.”
E lui sorrise. Non sorrideva da molto tempo: chissà come verrò nella foto, pensò.
“Fatta” disse la ragazza. Prese la macchina fotografica e tutti la circondarono per vedere com’era venuta la foto. Dissero che era venuta bene. Lui nel frattempo si era allontanato.
“Stefan! Non vuoi vedere la foto?”
“Va bene.”
La ragazza gli mostrò la fotografia nello schermo riparandola con una mano per coprire il riflesso della luce. Sembravano un gruppo di amici, erano tutti abbracciati e sorridenti, come se si conoscessero da molto.
“Beh, almeno non abbiamo le solite foto di spiagge e mare azzurro” disse uno dei ragazzi. “Di quelle ne abbiamo fatto tremila e sono tutte noiose, questa invece è bella.”
“Vere pecore sarde” disse una delle ragazze.
I ragazzi dissero che era ora di andare a mangiare.
Lo salutarono, ringraziandolo per la pazienza. Scavalcarono la rete arrugginita, salirono sulle bici e si allontanarono.
Lui restò per qualche secondo in piedi. Nel campo c’era di nuovo silenzio. Tornò sotto l’ulivo, si coricò per terra, poggiò la schiena e la testa al tronco. Tolse il coltello dalla tasca perché gli dava fastidio e lo poggiò sull’erba. Poi chiuse gli occhi e poco dopo si addormentò.


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