Mi ha colpito un ritratto della triste vita di Marchionne che egli stesso ha di recente consegnato ai giornali per giustificare lo stipendio di 400 volte superiore a quello di un operaio: sette giorni su sette di lavoro, ottanta sigarette al giorno, due o tre ore di sonno a notte. Questa di dormire poco invece di perdere tempo è una di quelle cose tipiche del machismo da partita IVA, un po’ Gekko di Wall Street, un po’ Berlusconi e Fabrizio Corona. Ho quindi deciso di sperimentare in prima persona un simile stile di vita, saltando però le parti troppo rischiose per la mia salute fragile, per cui niente sigarette e niente lavoro. L’esperimento si è quindi ridotto al tentativo di dormire quattro o cinque ore a notte (due mi sembravano fantascientifiche). E’ andata così: il primo giorno sono andato a letto alle tre e mi sono alzato alle sette del mattino. Quattro ore di sonno. Nelle prime ore mi sentivo euforico, ma poi, poco prima di mezzogiorno, mi sono addormentato davanti alla tv. Mi sono svegliato per il pranzo, ho cucinato e mangiato e subito dopo sono di nuovo crollato in un sonno profondo. Nel pomeriggio sono andato avanti alternando momenti di veglia e momenti di sonno e brevi intervalli in cui riuscivo a comunicare e deambulare. Sono uscito, ho preso aria, ho perfino fatto qualcosa, ma prima delle dieci di sera dormivo di nuovo. La notte ho dormito per quasi dodici ore filate. Il giorno dopo mi sono riposato. Fine dell’esperimento.
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Non c’è nessuno che stia raccontando la Sardegna attuale. Scrittori ce ne sono pure tanti, ma nessuno di questi racconta la Sardegna attuale, né parlando d’altro – del passato, di loro stessi, di alieni o vermi giganti – né in forma di metafora o che so io. Niente. Il cinema non lo fa, anche se forse potrebbe (vedi Mereu, che stimo). Ma i libri proprio non ci riescono. Gli scrittori ormai da tempo sono chiusi in queste cose folkloristiche da Sardegna magica dove tutti hanno nomi strani tipo Tziu Balliccu, Vrastaldu o Martino, mai uno che si chiami Gianni e faccia cose tipo comprare la bombola del gas e suicidarsi. Che poi alcuni non sono nemmeno male (Niffoi), però non si va mai oltre. Ci ha provato qualche giovane, a raccontare qualcosa di diverso, ma ovviamente con risultati mediocri. Per un attimo ho perfino pensato che avrei trovato qualcosa di interessante nel mondo dei blog: ma figuriamoci. Quindi, appurato che gli ultimi romanzi sardi buoni sono quelli della Deledda, non mi resta che continuare a leggere ogni mattina quel meraviglioso e infinito romanzo in progress firmato da un collettivo di scrittori anonimi che pubblica sotto il nome di “cronaca regionale”. Leggendo quelle pagine viene fuori un’isola di suicidi, disperazione, giovani bulli che tormentano i vecchi, vecchi che si ammazzano tra loro, pescatori di frodo, piantagioni di marijuana, reperti archeologici, disoccupazione, qualità della vita e raccolta differenziata.
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Però, amici scrittori, prima che vi precipitiate a scrivere della realtà, lasciate che io, dall’alto della mia esperienza con il romanzo italiano contemporaneo – cioè dopo aver letto un paio di pagine di un romanzo recente in una libreria del centro commerciale mentre aspettavo che mi facessero la copia delle chiavi – vi indichi qualche linea guida e soprattutto gli errori da evitare. Allora: niente precari, perché hanno veramente rotto i coglioni: preferire tutto il resto della società, con un occhio di riguardo per impiegati statali e artigiani con hobby segreti e imbarazzanti; niente noir, perché ha rotto i coglioni; niente 30enni, perché anche loro hanno rotto i coglioni: rivalutare invece i 40/50/60enni e soprattutto i vecchi; niente difficoltà economiche, se non molto divertenti; niente anoressia, bulimia o stupri in età infantile: per divertirci c’è già internet; niente riflessioni sulla società, se non sbagliate/folli/sconsiderate; restate comunque sul vago, in modo che possa sembrare che vogliate dire qualcosa oppure anche il contrario, chi lo sa; niente supermercati come metafora di qualcosa; niente scene di sesso; niente storie sentimentali omosessuali tipo Ozpetek; ben vengano invece storie frocissime, sporche, divertenti e disperate; non descrivete scene di droga se non l’avete mai presa; niente scena ironica del colloquio di lavoro con la frase “le faremo sapere” che eh eh eh! tutti sappiamo cosa vuol dire: quella scena ha rotto i coglioni; veramente, lasciate perdere quella scena; ma soprattutto MAI e poi MAI una protagonista femminile: MAI; perché, se siete maschi, difficilmente saprete rendere credibile una voce femminile; se invece siete femmine non sapete scrivere, però magari potrete rimediare i complimenti di Bruno Vespa.
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Idea per un remake: sulla scia dell’”Angelo sterminatore” di Bunuel, fare un film su un gruppo di ragazzi che suonano i bonghi e la chitarra in un parco cittadino. Sono tutti studenti: i maschi hanno magliette di gruppi musicali e si fanno le canne, mentre le donne vanno in giro scalze e si fanno le canne. Quando arriva la notte invece di andare via dal parco e tornare a casa restano lì e si addormentano sull’erba. All’alba della mattina dopo sono ancora lì: intrappolati dentro il parco. Non c’è nessun cancello che sbarra la via d’uscita, eppure nessuno di loro riesce a uscire, come se una forza misteriosa li avesse catturati. E da fuori non è che qualcuno si disperi, anzi. La gente va a vedere, ma non può entrare: li osservano disperarsi, accendere il fuoco e chiedere aiuto, mentre lentamente vanno incontro all’inevitabile morte per fame. In realtà nel parco ci sarebbero le anatre del laghetto, ma nessuno di loro ha il coraggio di ucciderle, anche perché la maggior parte sono vegetariani. Muoiono tutti, uno ad uno: gli ultimi suonano un inquietante canto di morte con i bonghi e poi cadono a terra morti. Ecco, se qualche produttore è interessato mi propongo come sceneggiatore, regista e anche interprete per la parte dello scienziato chiamato dalla polizia per risolvere il problema. Ha una sola battuta, arriva e dice: “Non c’è niente da fare, lasciamoli lì. Cementiamo l’area come a Chernobyl, non lasciamo che i bambini assistano alla decomposizione!” e poi va via.
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E’ che ultimamente vivo appartato. Rare uscite, pochi incontri, giusto due parole con i vecchi nella campagna qua intorno, fra cui un ex militare Nato, ora convertito alla coltura delle patate e zucchine, che mi racconta cose atroci come se fossero divertenti e viceversa. Molte delle cose che mi racconta hanno a che fare con gatti, serpenti e armi pesanti. Inizialmente pensavo di disgustarlo e infastidirlo, per via del modo in cui mi guardava, come se mi dovesse dare un colpo di zappa in faccia da un momento all’altro. Ma poi ho capito che forse ha qualche problema agli occhi quando l’ho visto guardare in quel modo rabbioso anche un pomodoro. Mi chiede sempre come mai non addestro il cane, quasi ogni sua storia termina con la domanda retorica: “Tu non hai fatto il militare, vero?” e a volte mi regala frutta e verdura. Per il resto abbondanti dosi di solitudine, libri e serie americane. La maggior parte delle persone che sento parlare ultimamente sono dvd rip e sub ita. Insomma: sto benissimo. Eppure ogni tanto capita che il citofono suoni, se non il mio quello di qualcun altro, il cancello che sbatte, baci e abbracci, il colpetto di clacson della macchina per l’ultimo saluto e insomma la vita reale si affaccia alla porta e scassa il cazzo. In quei giorni immagino nuovi colori, distanze inconcepibili, silenzi assoluti e la fioritura del fitoplacton nel mare di Barents.
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Ecco, in quei giorni mi capita anche di invidiare i sentinelesi. Sono il popolo più isolato della Terra, vivono sull’isola di North Sentinel nell’arcipelago delle Isole Andamane, nel Golfo del Bengala. Nessuno fuori dall’isola parla la loro lingua e nessuno conosce il nome che loro stessi si sono dati. Ogni volta che dalla civiltà arrivano tentativi di contatto i sentinelesi rispondono lanciando frecce e mostrando i genitali, tanto che al momento esiste una legge che vieta a chiunque di avvicinarsi all’isola. Per proteggere loro ma soprattutto gli altri, suppongo. Diciamo che i sentinelesi rappresentano il classico mito del buon selvaggio: in particolare il mito del buon selvaggio che ti spara frecce in culo. Eppure ogni tanto la civiltà ci prova. Negli anni 70 ad esempio ci provò una troupe televisiva. Il piano, elaborato con la collaborazione di acutissimi antropologi, prevedeva di presentarsi con gesti amichevoli e tanti bei doni: noci di cocco, delle pentole, una macchinina di plastica, una bambola e altre idiozie di questo tipo. Gli indigeni naturalmente risposero nell’unico modo possibile, cioè con una raffica di frecce, una delle quali colpì il regista della troupe. L’uomo che aveva scagliato la freccia venne visto ridere fiero di sé e poi andare a sedersi sotto l’ombra di un albero (LOL). Successivamente i sentinelesi hanno ucciso alcune persone, per lo più pescatori avventati. Nel 2004, quando l’isola è stata travolta dallo tsunami, dalla civiltà mandarono i soccorsi per controllare che i sentinelesi fossero ancora vivi. Erano vivi, e risposero puntando l’arco contro l’elicottero: evidentemente non avevano bisogno di aiuto. Nel 2006 poi hanno ucciso dei pescatori che pescavano illegalmente nelle loro acque. L’elicottero inviato a recuperare i corpi anche questa volta venne attaccato da una pioggia di frecce, rendendo impossibile il recupero. Nel 1990 però c’è stato uno dei pochi incontri non finiti in tragedia. E di questo incredibile incontro esiste perfino il video: noi diciamo grazie, Internet.
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In “Memorie dalla casa dei morti”, il romanzo di Fëdor che racconta la sua condanna ai lavori forzati in Siberia – ma più che altro racconta la condanna degli altri detenuti – ho letto una delle cose più schifose mai trovate in un libro e che riporto qui sempre per aiutare gli amici scrittori interessati a tutti gli aspetti della realtà. Realtà che in alcuni casi può effettivamente essere molto disgustosa. In alcuni capitoli delle Memorie Fëdor racconta della sua degenza nell’ospedale della prigione, dove molti detenuti si fanno ricoverare più che altro per dormire almeno qualche giorno su un vero materasso, dato che normalmente dormivano su tavole di legno. In questo ospedale regna la sporcizia e la puzza e soprattutto quest’ultima il buon Fëdor la descrive per molte pagine: l’aria, dice, era talmente malsana che anche l’acqua, dopo qualche ora, diventava imbevibile. Ma a un certo punto, dopo le piaghe, le febbri, le urla e i pidocchi, arriva l’inaspettato e inconcepibile Orrore quando descrive un vecchio ammalato. Questo vecchio passa il giorno a starnutire dentro un fazzoletto di cotone di sua proprietà che poi ripulisce sulla vestaglia fornitagli dall’ospedale: “Sicché tutto il moccio restava attaccato alla veste da camera e il fazzoletto restava soltanto umido. Questo lo fece per tutta una settimana. Questa economia di un oggetto di sua proprietà a danno della veste da camera che apparteneva all’amministrazione, non suscitava nessuna protesta da parte degli ammalati, benché potesse capitare a ciascuno di loro di dover indossare dopo di lui quella stessa veste da camera” (infatti i vestiti non venivano mai lavati, ed erano quindi ricoperti di moccio, piscio, pus e sangue: un tipico caso di malasanità, diremmo noi). Ecco, la vestaglia di moccio. Chi ci aveva mai pensato? Pensateci. Prendetelo come un esercizio: partite da qui. Dalla vestaglia di moccio.
Commenti
6 risposte a “Io non sono qui per sempre ma soltanto per qualche anno! penso io, e di nuovo chino il capo sul guanciale”
un post meraviglioso ogni 3 mesi, io voglio un internet cosi!
E’ andata così: il primo giorno sono andato a letto alle tre e mi sono alzato alle sette del mattino. Quattro ore di sonno.
Lo sa anche mio cugino di sei anni che le ore di vero riposo sono quelle prima della mezzanotte. Dormire 4 ore dalle 22 alle 2 di notte dà molto più riposo che non dormire dalle 3 alle 7 di notte che è una cosa senza senso.
L’esperimento va fatto dormendo prima di mezzanotte, non dopo.
Ritenta S+F
sì certo, poi mi alzo alle 2 e vado a lavorare.
grazie per l’utilissimo consiglio eh
Bravo bravo, ancora ancora.
mi aspettavo che qualcuno lo notasse, ma vabbè: http://wikimapia.org/14134022/Shipwreck-on-North-Sentinel-Island
la vestaglia di moccio è solo un momento di “comodo”. a volte mi soffio il naso sulle spalle delle maniche del pigiama, tanto si secca e non è anti-igienico. è una di quelle cose che fai tranquillamente quando sei piccolo perchè tutti cercano di insegnarti un’igiene senza la quale si può benissimo vivere.
c’è anche un’altra igiene molto importante che è quella che invece ti serve per vivere, e per ognuno è diversa. Per esempio per me è essenziale lavarmi i denti almeno un paio di volte al giorno, anche senza dentifricio, ma almeno togliere zuccheri e pezzi di pane. questa stupida pratica quotidiana mi ha permesso di arrivare a 30 anni senza neanche una carie. il punto, che nessuno considera (tutti che mi parlano di ottima costituzione) è che non ho mai saltato più di 24 ore tra una lavata di denti e l’altra. mai! quante volte invece voi dotati di dentifricio avete saltato magari 2…3 giorni? e quante volte avete bevuto il caffè tenendo la bocca sporca magari per 8 ore? io mai. dopo il caffè mi lavo sempre i denti, e ora quando mastico non ho problemi, solo una volta prima di un colloquio importante sono andato a fare la pulizia dei denti, e per 15 cazzo di giorni sentivo tantissimo freddo e caldo e ho avuto paura di essermi rovinato i denti, e invece, dopo un po la cara vecchia patina è tornata.
un altro che si deve sempre lavare qualcosa è mio padre, lui si lava sempre i piedi prima di andare a letto, morisse gesù cristo risorto, lui prima di fare qualsiasi cosa si laverebbe i piedi. sono un po’ manie che secondo me in famiglia ci si attacca tipo malattie, eppure ti aiutano a tenere una specie di equilibrio tra te e il mondo. e l’equilibrio non è fatto dal rispettare delle regole, quanto piuttosto dal crearle. il fatto di rispettare (come anche rompere) una regola che abbiamo creato noi stabilisce il nostro senso nel mondo. ci dice se siamo bravi o cattivi, ci dice se possiamo godere o se prima dobbiamo chiedere scusa. c’è anche chi si inventa di dover rispettare le leggi di dio, dimenticando che sono state trascritte (e quindi interpretate) da altri uomini con un disperato bisogno di regole. il fatto di provare un nuovo regime alimentare o un regime di sonno, è la ricerca di una regola, per capire qualcosa di te.
la figata è quando seguendo qualche regola che hai inventato riesci a capire pezzi di mondo che nessuno ti aveva spiegato, allora arrivi a considerarti bravo a sufficienza e tutte le altre novità della vita ricadono in quella visione. però, fino a quando non piangi probabilmente non hai ancora avuto ben presente cosa c’è di importante oltre alle nostre regole.