La proporzionalità inversa tra lo scrittore e musicista Anthony Joseph e il sottoscritto

Anthony Joseph & The Spasm Band @ Dromos Festival, Nurachi, 6 agosto 2012

Ingredienti per un concerto di Anthony Joseph: prendete un po’ di soul, un po’ di Fela Kuti, Jimi Hendrix e Sun Ra (spiego poi perché), Gil Scott-Heron, il grande Exuma, il funk psichedelico di George Clinton e qualsiasi cosa black aggressiva e psichedelica che vi venga in mente, frullate tutto, dategli fuoco, poi aggiungete la perfetta elasticità dei muscoli e quella roba indescrivibile che su un palco fa di un nero un nero e di un bianco un bianco. Ci siamo quasi.

Il concerto inizia così: io da solo, perché da qualche tempo mi vanto di andare ai concerti da solo e stare benissimo, ma in realtà nell’attesa mi deprimo profondamente e continuo ad essere incapace di arrivare al momento giusto. Arrivo sempre mezz’ora prima, come i fotografi che ci tengono alla prima fila. Quindi dopo un po’ o fumo come un dannato o finisco per parlare con il tecnico delle luci con il quale mi complimento per l’ottimo lavoro del giorno prima, oppure controllo il cellulare per finta perché tanto non mi arrivano messaggi, o ancora fumo, mi guardo intorno e mi sistemo il pass stampa in modo che si capisca che sono lì per lavoro e non per divertirmi.

Lui fa l’entrata da protagonista, e già qua, considerando che io, come il 90% delle volte, mentre cercavo un posto sono inciampato nella plastica che copre i cavi e ho deciso che la mia vita è sbagliata, ci sono tutti gli indizi delle numerose diversità tra me e l’artista Anthony Joseph. Buio, musicisti fermi e in silenzio per due interminabili minuti, poi un’esplosione di luci e di noise-jazz, con sassofono, batteria e chitarre che violentano le prime file e nel fumo viola e giallo appare lui avvolto nella bandiera di Trinidad.

Non è neanche un’entrata, è un attacco frontale: balla, si contorce, salta, cambia passo, indica il pubblico, indica in alto, chiama gli strumenti (a sorpresa un chitarrista calabrese con i capelli lunghissimi, Christian Arcucci, molto bravo) e ride, urla, butta giù l’asta del microfono e la riprende al volo, salta ancora, con un calcio raccoglie il tamburello con i sonagli e nei rari momenti di silenzio invece di riprendere fiato soffia in un fischietto che ha appeso al collo e batte le mani.

Muove le spalle come io non riuscirei a fare nemmeno con molto stretching e una sostanza dopante iniettata direttamente nei muscoli, urla e declama cose, che poi sarebbero appunto le sue poesie messe in musica. E forse questo è il momento giusto per parlare del problema fondamentale dello spoken word.

Che è sostanzialmente questo: se non capisci l’inglese alla perfezione godi la metà. Ma ieri sera pensavo (perché ai concerti da solo c’è di bello che puoi pensare) che forse ti godi la metà giusta: quella del ritmo, della musicalità della parola, quelle cose evocative come in the jungle, oh people, oh lord, there was a woman, sing boy, sing boy, roba così.

La gente funziona come quei materiali conduttori di elettricità: iniziano a muoversi, lui invita tutti ad alzarsi in piedi e ballare, se capisco bene dice che è come una medicina e che fa bene perché si perdono calorie e come al solito prima ubbidiscono le ragazze fighe e con le spalle scoperte, poi quelle meno fighe e con le spalle coperte, a seguire anche qualche maschio ridicolo con bicchiere di birra in mano e sigaretta tra le dita, totalmente inadatti, niente a confronto con la perfezione e la bellezza di Anthony Joseph sul palco, squallidi rospi sudaticci viscidi e sgraziati, andatevene a fanculo.

Lui ha anche una voce bellissima. Non so se sia davvero anche un grande scrittore come dicono. Perché pare che Anthony Joseph sia un poeta e uno scrittore prima che un musicista, e se così fosse – io non lo so, non ho mai letto niente di suo – ci troveremmo di fronte a un’evoluzione della specie. E’ un po’ come se venisse fuori che Bolt è portato per la pittura astratta e la filologia greca.

Davvero questa bestia da palcoscenico è capace di sedersi davanti a un computer e scrivere come ora sto facendo io nella solitudine del mio materasso sul pavimento?

Usiamo lo stesso alfabeto, dopotutto. Avrà anche lui una tastiera qwerty, uno sfondo bianco dove butta lettere nere una dopo l’altra, come faccio io? Al momento mi sembra impossibile. Eppure è così: uno dei suoi libri ha un titolo bellissimo, si chiama The African origin of Ufos, ed ecco che anche l’esplorazione spaziale della Nasa africana dell’ingegnere Sun Ra è uno degli ingredienti del frullato ultra meticciato anglo-funk-caraibico con riferimenti all’afro-jazz e al rock acido e alle parole messe in fila una dopo l’altra del poeta e musicista Anthony Joseph.

E allora succede una cosa: sono troppo vicino al palco – l’errore di arrivare presto – e la breve distanza dalla fonte dell’energia, cioè l’eccessiva presenza scenica di Anthony Joseph, provoca in me l’effetto contrario dei materiali conduttori. Mentre gli altri ballano mi immobilizzo sempre di più. A un certo punto lui fa addirittura una serie di calci volanti – giuro, tipo Bruce Lee – e io smetto perfino di tenere il ritmo col piede, mi paralizzo, la pressione cala, rallento il battito, entro in un turbine di pensieri deprimenti: ho sbagliato tutto, sto sbagliando tutto, sbaglierò ancora, e mi vengono in mente tutte le battute infelici, le feste delle medie, i regali sbagliati, la morte di mia nonna anche se è ancora viva, la morte del mio cane che invece è morto, malattie, disoccupazioni, dichiarazioni dei redditi e anticipi Inps.

All’apice del concerto – travolgente, trascinante, esplosivo, energico: elenco mentalmente tutti gli stupidi e banali aggettivi che dovrò usare poi nell’articolo-standard – io mi sento un fossile dell’era glaciale.

E’ a questo punto che capisco che io e Anthony Joseph, almeno questa sera, siamo inversamente proporzionali.

Non so cosa pensi Anthony della musica, magari c’è qualche poesia o canzone dove ne parla o qualche intervista che non leggerò dove lo dice chiaramente, ma forse è uno di quelli che con la sua arte vuole trasmettere qualcosa. E non può nemmeno immaginare cosa stia succedendo allo spettatore a pochi metri da lui, quali strani e imprevedibili effetti la sua performance stia avendo su quello spettatore. Più lui si muove, meno mi muovo io. Più lui respira, meno respiro io. Cala la pressione e intere ere retrocedono al mio respiro. Pliocene. Mesozoico. Pleistocene. Non ricordo mai l’ordine esatto. Mi alzo prima del bis e mi allontano senza inciampare.

Comunque: uno dei concerti più belli dell’anno.

Cosa scaricare: due dischi soprattutto, Bird Head Son del 2009 e soprattutto Rubber Orchestras del 2011.

Il sito di Anthony Joseph: www.anthonyjoseph.co.uk

(foto di Jordane Chaillou / Flickr)

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