Musica dal mondo (vol.1)

Straordinari blog che raccolgono musica dal mondo, lo sappiamo, ne esistono moltissimi oramai (e meno male). Proprio vagando in alcuni di questi ho scovato alcune chicche; e la voglia di condivisione era tanta che non ho ancora effettuato ricerche specifiche per ogni artista: di molti non conosco l’epoca, lo stile e finanche il paese! So solo che alcuni di questi schiudono mondi ancora per me inesplorati e tanto mi basta per godere. Ve li propongo:

http://youtu.be/4N4OLtDqECo

chiudo con un brano già proposto, ma eccezionale, che merita di essere presente:

L'arte di Shuji Terayama

Shuji+Terayama

(Shuji Terayama)

Tutto cominciò col Krautrocksampler (l’ormai mitico libro di Cope) di cui rimarrò sempre un fedele credente. Qualche settimana fa ne ho risfogliato avidamente le pagine e in un deliquio di ricordi da sospiri nella notte ho riascoltato molta di quella musica. Subito dopo non potevo non ricominciare anche col Japrocksampler suo successore. Chiariamolo subito: il rock giapponese non è neppure lontanamente paragonabile a quello tedesco per portata ne per fascinazione, anche se, come in tutte le arti, scavando per bene alcune perle sono rintracciabili anche lì nel rock seventies del paese del sol levante. Sostanzialmente si può schematizzare il tutto dicendo che molti, moltissimi, quasi tutti i gruppi giapponesi dell’epoca si rifacevano (se non copiavano) lo stile dei gruppi anglosassoni/occidentali, a volte proprio pedissequamente. Quelli che più sono riusciti ad essere originali hanno ovviamente creato qualcosa di più interessante da andare a scovare: tipo i nostri adorati (e davvero parliamo di amore per quanto mi riguarda) Les Rallizes Dénudés (che pure si rifacevano ai primi Velvet), Magical Power Mako (molto Faust e molto Battiato primissima maniera) il jazz incontrollato di Masahiko Sato, i Brast Burn/Karuna Khyal, i Taj Mahal Travellers e il maestro J.A. Caesar (o J.A. Seazer).

J.A. Caesar

(J.A. Caesar e Tenjo Saijki)

Quest’ultimo era compositore di tutte le musiche degli spettacoli teatrali del gruppo Tenjo Saijki che ruotava attorno alla figura del regista/poeta/scrittore Shuji Terayama (e si avvaleva anche della magnifica arte grafica di Tadanori Yokoo). Cope propone l’ascolto di diversi dischi di J.A. Caesar, anche se, a parere di chi scrive, sono davvero poche le emozioni ricavabili dall’ascolto di queste opere dato che esse sono di solito un potpourri di prestiti dal rock occidentale (anche protometal), folk giapponese e musica “di sottofondo”, il tutto però sovrastato costantemente dai dialoghi o dalle urla di cori femminili. Una eccezione è il bel esperimento di Jinriki Hikouki No Tame No Enzetsu Souan dall’album Kokkyou Junreika, dove una voce femminile elenca in maniera fredda tutti gli stati del mondo mentre un’altra maschile salmodia qualcosa in giapponese.

07 – jinriki hikouki no tame no enzetsu souan

Due anni prima di quest’album (nel 1971) Caesar è stato probabilmente (lo stesso Cope non ha dati per accertarlo, ma sembra altamente probabile) coinvolto nella realizzazione della colonna sonora attribuita ai Tokyo Kid Brothers (costola dei Tenjo Saijki emigrata negli states) di Throw Away The Books, Let’s Go Into The Streets, di cui vi propongo questo brano che mi colpì fin dal primo ascolto:

10 1970-Nen 8-Gatsu

1970-Nen 8-Gatsu

Per il resto del disco stessa storia degli album di Caesar anche se qui, essendo il tutto più rock-oriented, la fruibilità aumenta. Tutt’altra storia se questa musica la si gode prendendo visione del film di Terayama, un vero capolavoro d’arte sperimentale del quale consiglio caldamente la visione, possibile sul tubo: Parte 1Parte 2.

difference

Infine segnalo un cortometraggio del maestro Terayama:

titolo usato dagli Stereolab per un loro disco, ricordate?

Mi ricordo Monteverdi (ecco un titolo che quelli di Radio3 non avrebbero mai fatto)

Claudio_Monteverdi_1
Dimentichiamo velocemente la citazione di Marcella Bella e dedichiamoci alla celebrazione del genio musicale di Claudio Giovanni Antonio Monteverdi. Uno degli illuminati del Seicento, del millennio passato e probabilmente anche di quello futuro. Noto per aver inventato l’opera (è sua la prima: L’Orfeo) e per i numerosi madrigali, su cui lavorò praticamente per tutta la vita. Diciamo che è uno di quelli da citare quando sentite qualcuno dire “la musica classica/l’opera ah che palle, che noia”, ovviamente dopo aver colpito lo sventurato interlocutore con un potente schiaffo a cinque dita, possibilmente inanellate.

Ma non è solo per incitare alla violenza che scrivo questo post, ma anche e soprattutto per chiedere soldi. Parliamo dopotutto di musica, di teatro, quindi la moneta è fondamentale. Infatti accade che, mentre la massa dei loro coetanei si anestetizza il cervello con opere mediocri, consolatorie e derivative che non solo non sfiorano ma nemmeno vedono da lontano le potenzialità sublimi della musica, un gruppo di giovani donne ha deciso di portare avanti quello che a me sembra un vero e proprio discorso politico: fare, nel 2013, Il ballo delle ingrate di Monteverdi. In particolare riporto questo passaggio, per me addirittura commovente, tratto dalla loro dichiarazione d’intenti:

L’intento non è solo esplorare, ancora una volta, le sfumature infinite di questo capolavoro di Monteverdi, ma anche di divulgare (per quanto ci sarà possibile) tra i nostri coetanei la bellezza della musica barocca e la maestria inimitabile di questo compositore, per dimostrare che, realizzata in un certo modo, non solo può travalicare i secoli, ma anche le generazioni.

Ecco, fosse per me raderei al suolo ogni pub, ogni centro sociale, ogni area concerti, ogni luogo di socializzazione e condivisione della musica, compresi i teatri, anzi: soprattutto i teatri. Ma questo perché io ho perso la speranza già da tempo, dunque – da anziano – mi fa piacere sapere che c’è qualcuno che pensa sia possibile portare Monteverdi alle orecchie di chi quando va a fare la spesa al supermercato si becca Marco Mengoni se gli va bene o qualche gruppo indie simpaticissimo se gli va male. Questo loro non lo dicono e probabilmente non lo pensano (nonostante la loro passione per Monteverdi sono comunque delle giovani) ma lo dico e lo penso io.

Perché questo è uno di quei casi in cui una dichiarazione estetica, poetica, è una vera dichiarazione di guerra: contro la mediocrità, contro i contemporanei, contro chi si accontenta. Noi invece non ci accontentiamo: largo al futuro e quindi largo a Monteverdi, Carlo Gesualdo, e ovviamente Rossini, Rossini, Rossini.

Però per portare avanti questa iniziativa ovviamente servono dei soldi. Dunque le giovani terroriste della musica barocca hanno messo su una raccolta fondi e chiunque può aiutarle con un piccolo contributo. Noi di Guylum Bardot sosteniamo convinti – ancora per poco, poi lo sconforto riprenderà il sopravvento – questa lodevolissima iniziativa. E per incitare anche i nostri fedeli lettori allo sganciamento di moneta, vi ricordiamo che per ogni quota donata un musicista mediocre verrà ucciso, sacrificato sull’altare della Grande Musica Sublime. Dunque è uno di quei casi in cui doni qualche euro e fai un’opera buona.

Insomma, fatelo per il mondo, fatelo per i vostri figli.

Fatelo per Monteverdi.

SOSTIENI IL BALLO DELLE INGRATE SU PRODUZIONI DAL BASSO (una quota 5 euro, non fate i poveri: si tratta di salvare il mondo dalla mediocrità)

Qui la pagina Facebook dell’iniziativa.

Radio Xhol

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Gli Xhol sono un gruppo germanico di fine anni ’60/inizio ’70. Nati come Soul Caravan per poi diventare Xhol Caravan e infine perdere anche la seconda parola per una disputa con il famoso gruppo di Canterbury, si distinsero come uno dei primi collettivi di krautrock, ma non solo, a ben vedere. La prima, programmatica, scelta della parola Soul ci fa già intuire che la loro era una commistione che andava un po’ oltre i confini del rock psichedelico, che comunque sottende tutti i brani, sopratutto i più dilatati come Rise Up High sull’album Electrip del ’69. Una considerevole dose di soul/r’n’b quindi arricchisce molte loro composizioni, in più un pizzico di prog-jazz (tipo quello dei quasi omonimi canterburiani ma anche sopratutto dei Soft Machine) e il loro gioco è fatto!

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Ma non ci dimentichiamo cosa la Germania era per il rock in quegli anni, un ribollire incessante di novità e sperimentazioni e allora i nostri, nel ’70, decidono di destrutturare, così un po’ a casaccio; ne viene fuori (con due anni di ritardo però perché il gruppo si sfaldava e non trovava chi lo pubblicasse) un album strambo “Motherfuckers GMBH & Co. KG“, che se non erro anche Julian Cope suggeriva nella sua bibbia sul Kraut. E la destrutturazione comincia proprio da loro stessi, auto-campionati e mash-uppati:

Io sono Tony Scott

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Porto avanti volentieri la deriva jazz di Guylum Bardot con la segnalazione di questo bellissimo film che Franco Maresco ha dedicato a Tony Scott: Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz. Si può vedere intero nel sito della Rai (già, incredibile). Un film politico, in un certo senso, una storia tanto bella quanto triste, con molti colpi di scena e un sacco di bella musica. Consigliato.

L'ultima partita di Miles

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Immaginatevi la scena: siamo al tavolo verde, 1° febbraio 1975, si gioca la finale mondiale di bridge. A sfidarsi, per l’ennesima volta, Stati Uniti e Italia, sullo sfondo l’isola di Bermuda. Nell’ultima leggendaria mano Belladonna e Garozzo realizzano un Grande Slam a Fiori contro un Piccolo Slam Senza Atout messo a segno dagli americani. L’Italia si riconferma campione mondiale con la squadra Blue Team, chiudendo proprio con questa vittoria un ventennio di dominio quasi incontrastato.

Nello stesso giorno, a molte miglia e fusi orari di distanza, e precisamente all’Osaka Festival Hall, un altro grande campione del ventennio precedente sta per giocarsi quella che per un bel po’ di tempo sarà la sua ultima carta; sto parlando del re del jazz: Mr. Miles Davis.

Miles+Davis

La squadra davisiana non aveva certo nulla da invidiare al Blue Team in quanto a maestria, sangue freddo e abnegazione; c’erano, oltre a Mr. D alla tromba elettrica e all’organo, Sonny Fortune al flauto e al sax soprano, Pete Cosey alla chitarra elettrica e al sintetizzatore, Reggie Lucas altra chitarra elettrica, Michael Henderson grandioso basso elettrico, Al Foster alla batteria, il fantastico Mtume alle conga e percussioni varie.

E chisà se Mr. D disse alla sua squadra: “ok ragazzi, facciamoci quest’ultima giornata d’orgia sonica e poi ci fermiamo per 5-6 anni; vi voglio più cazzuti del solito, facciamo vedere a sti musi gialli che figli di puttana siamo!”; ma, molto più probabilmente, Miles non ha detto un cazzo a nessuno della sua intenzione di fermarsi, di prendere tempo e di capire dove ancora dirigere la sua Musica, avrà come al solito messo sotto torchio i suoi uomini col suo incommensurabile carisma e genio, chiedendo un’unica cosa: “dobbiamo mischiare tutto quello fatto finora e dobbiamo andare oltre!”. Roba da poco insomma.

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Teniamoci ai fatti: due esibizioni, una pomeridiana e una serale; la decisione presa è suonare quasi tutta roba nuova in lunghissime improvvisazioni mantriche e corroboranti, sudatissime suite hardfusionfunkyjazz. Roba che avrebbe dovuto ipnotizzare le masse nelle intenzioni di Mr. D e invece, ovviamente, non lo fece. Ne uscirono due album doppi! Agharta registrato il pomeriggio e Pangaea la sera, che poca notizia fecero all’epoca, eppure erano qualcosa di unico: immaginatevi giocare insieme allo stesso tavolo Sun Ra, James Brown e Jimi Hendrix e ognuno tirar fuori il proprio Grande Slam a Fiori!

Prendiamo il Prelude di Agharta e analizziamo lo schema di gioco: la prima mossa spetta a Henderson, Lucas e Mtume, che iniziano funkeggiando in libertà ma tenendo bene in mente la visione fuomosa del Godfather of Soul che campeggia sulla copertina di The Payback, uscito pochi mesi prima: poi il sintetizzatore spaziale di Cosey ci introduce Mastro Davis e la sua tromba pungente, intanto la sezione ritmica non si ferma un secondo, va e va incessante fino ad un microstop nel quale si inserisce furtivo un immenso Sonny Fortune al sax; quando questi si acquieta ritornano insieme Cosey e Lucas e qui davvero sembra di vedere Sun Ra e Jimi che facendosi occhiolino calano insieme la carta vincente. Da qui in poi la vittoria è assicurata, non resta che gestire la partita e infatti verso il minuto 17 ci si diverte anche con un riffettino funky, tappeto ideale per il ritorno dell’elettrica tromba di M.D. che si sposa alla meraviglia prima con il lavoro di Mtume e poi con quello di Lucas/Cosey. C’è ancora spazio per far divertire Henderson manco fosse Bootsy Collins e poi via di jam fino alla fine dei 32 minuti di questo Preludio! Le successive mani di gioco riprendono questo schema e lo scompongono e ricompongono a piacimento.

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E’ così nell’ultima partita giocata negli anni ’70, questo squadrone mischia tutto ciò che lo stesso Miles Davis aveva contribuito pesantemente a generare, cioè la fusion, il funkyjazz e il prog, con altra roba ancora, la psichedelia, il funk duro e puro del padrino e ne tira fuori una musica che in un sol colpo scavalca i Parliament/Funkadelic e tutto il P-Funk ma anche gente come Bill Laswell, Praxis e compagnia, puntando dritto nello spazio. Diciamo una stazione orbitante dove si balla e ci si diverte; molto corpo e molta mente.

Un’ultima partita coi controcoglioni.

"Spiritual Jazz" ovvero: come mi innamorai di quella musica un po' monotona ma tanto evocativa

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Lo spiritual è sostanzialmente l’antenato del jazz, la musica che lega Mamma Africa all’America. Per intenderci, come si evince dallo stesso sottotitolo del disco la cui cover campeggia qui in bella vista, siamo in territori “jazz underground” ovvero distanti anni luce dal “jazz canzone” o dal “club jazz” ma anche dal “jazz sperimentale/free”; siamo in quella landa (che ho scoperto sconfinata proprio grazie a questa pubblicazione) che si è generata dall’arte di Trane, del faraone Sanders e in parte dell’alieno Re Sole Ra e dell’onnipresente Miles, che vive il jazz come profonda riscoperta delle proprie radici. Questa magnifica raccolta della benemerita Jazzmanrecords, come si può leggere sul sito stesso, pesca con incredibile maestria in un anfratto molto ben nascosto, che per anni è stato praticamente invisibile alle orecchie dei più, e ne tira fuori decine di perle di lucente bellezza mistica; moltissime delle quali hanno attraversato un processo di rimasterizzazione a partire dai nastri originali e hanno indossato quindi per la prima volta la veste digitale, utile a noi poveri lobotomizzati che nel chiuso delle nostre bettole ultramoderne ne possiamo godere anche solo con un click su Spotify (io mi sono fatto una playlist con tutti e quattro i volumi della serie e quasi tutti i giorni me ne riascolto qualche brano in riproduzione casuale, come sono figo eh? yeah!).

Misticamente parlando questo tipo di ascolto liofilizzato è praticamente agli antipodi rispetto al messaggio unitario e panteistico che questi artisti volevano lasciarci, ma tant’è. Qualcuno lo conoscerete (c’è un pezzo di Sun Ra, uno di Eric Dolphy, uno di Albert Ayler; poi Don Cherry e Llyod Miller -quello che ha fatto un disco con gli Heliocentrics-) ma sopratutto persone di cui quasi certamente mai avete sentito il nome tipo Full Moon Ensemble, Nana Imboro, Grachan Moncur III, l’Ohio Penitentiary 511 Jazz Ensemble. la Cairo Jazz Band.

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Insomma tutta roba da godere ad occhi chiusi pensando all’Africa Mistica, alla Natura lussureggiante, ai rituali voodoo, alla vita degli schiavi e tutto il resto dell’immaginario standardizzato di noi “poveri” Europei; vi verrà facile, molto più difficile sarà riaprire gli occhi nelle vostre confortevoli bettole.

Il mistero dei pirati del Planet O


Il tempo scorre e ogni giorno sembra uguale, finché, quando hai smesso di cercare, trovi la perla di cui non potevi nemmeno immaginare l’esistenza. Più che scoprirla ti arriva proprio in email. Mi scrive infatti Raffaele:

Il testo è fantastico, violentissimo e grottesco, eppure inserito in una cornice disco music tra Daddy Cool, Moroder e le Baccara, precursore di tutta una branca sci-fi dell’electro, da Afrika Bambaata ai Drexcya. Io dico che è il grande assente della storia della musica del Novecento.

Ora, com’è possibile che questa meraviglia dance con i robotici pirati del pianeta O che dicono “faremo di te una schiava, violeremo la tua anima, ti ipnotizzeremo” e la donna che gemendo risponde “per favore non toccarmi, chiamate mia madre” sia diventata la sigla della prima stagione dell’anime Lupin III, è un mistero.

Ci piace pensare che dietro ci sia un piano ben preciso, forse fallito, forse no.

The Burmans

Sachin+Dev+BurmanTutte le cose che si dicono della cosiddetta “Bollywood”, la mecca del cinema indiano, le sappiamo e quindi le saltiamo a piè pari; che sia stata per decenni anche fucina di mescolamenti musicali eccentrici e gustosi, anche ci è noto. E allora andiamo direttamente a parlare dei due signori in primo piano in questa foto: Sachin Dev BurmanRahul Dev Burman, rispettivamente padre (sulla destra) e figlio. Perché questi signori hanno realizzato colonne sonore per il cinema bollywoodiano per la loro intera vita.

stamp2801Di famiglia nobilissima, nato nel 1906, Sachin è figlio della regina di Manipur e del Raja di Tripura. Debutterà dapprima come cantante e poi dalla fine degli anni ’30 fino al 1975 (anno della sua dipartita) comporrà almeno un centinaio di colonne sonore per il cinema, per il quale è tutt’ora molto amato, tanto che in India c’è anche un francobollo con la sua faccia.

Cercando sul tubo si trova diversa roba come questa:

(da notare anche l’intraprendenza registica e di montaggio)

Il figlio Rahul nasce nel ’34 e fin da giovanissimo seguirà le orme del padre, tanto da essere per almeno un paio di decenni suo “rivale”. Di estrema prolificità (dovuta presumibilmente al boom bollywoodiano degli anni ’70) egli ha composto fino alla sua morte nel 1994, 331 colonne sonore, stando a wiki.

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Avendo la fortuna di trovarsi giovane, ricco e già figlio di un famoso musicista negli anni ’60, era ovvio che trovasse geniale l’idea di mischiare nelle sue soundtracks roba di tutti i tipi proveniente dall’occidente: rock psichedelico, funky, soul ma anche polka, cha cha cha, mazurca e altra paccottiglia; tutto ovviamente con base indiana di sitar, tabla etc.

Il suo disco più famoso è la colonna sonora per il film Shalimar, del 1975, i cui titoli iniziali sono stati innumerevoli volte campionati:

Rahul Dev Burman – Title Music

R.D. Burman – Shalimar Title Music

La Eco di Ripatti

[avvertenza: questa è una lunga monografia, perché quest’uomo la merita] 

Sasu Ripatti è un nome parecchio bruttino, involontariamente divertente, non trovate? Così di primo acchito lo assocerei ad un comico, e quindi capisco la scelta del musicista finlandese intenzionato a fare musica elettronica sostanzialmente scura e ambientale di accantonare il nome di battesimo per crearsene uno nuovo di zecca; il punto è che la cosa gli è piaciuta così tanto da crearsene almeno 4 o 5 di nomi. Ma cominciamo dal principio: il primo fu Delay, Vladislav Delay, molto più freddo in effetti, direi azzeccatissimo. E poi scegliersi come “cognome” il famoso effetto eco (ecco il piacione gioco di parole nel titolo) fu cosa buona e giusta. Siamo nel 1999, Sasu ha 23 anni.

Delay pubblica un primo album di fredda elettronica, ma le cose non sono ancora perfettamente al loro posto; tempo pochi mesi e il nostro, stacanovista fino al midollo, se ne esce con quattro album ognuno recante un moniker differente! e una differente declinazione della sua musica:

1) con il nome di Sistol pubblica un album omonimo che rigira su una minimal-techno in voga in quegli anni; 2) è poi la volta di Uusitalo con l’album Vapaa Muurari nel quale stavolta la techno si fa molto più ghiacciata e ambientale; 3) un secondo album a nome Delay, Multila e qui l’odore è già quello del capolavoro: l’atmosfera è sostanzialmente fredda e dub-techno, la cavalcata è Huone; 4) l’anno non fa in tempo a finire che Sasu ci mostra un ennesimo suo aspetto, quello di consumato uomo da club (il nostro è nato su una piccola isoletta finlandese ma nel 2000 viveva già da qualche anno a Berlino) con Luomo, l’album è Vocalcity, il pezzo che lo porta alla “ribalta” Tessio, e non so voi, ma io ascoltandolo non riesco a non figurarmi in uno di quei mega-club berlinesi a dimenarmi dolcemente.

Insomma un annus mirabilis per il nostro che dimostra di essere non solo prolificissimo ma anche su una strada lastricata d’oro; e il bello è che siamo solo all’inizio. Continuiamo:

in quel preciso momento Delay avrebbe potuto schiacciare sull’acceleratore e puntare al “successo” ma invece, da uomo in costante ricerca artistica quale è, fa un passo indietro e pubblica due album di non facile presa col suo moniker principale, Entain e Anima; il primo è freddissimo (ma ci regala un dolce congedo), il secondo, altro capolavoro, è una lunga traccia di bhò, vediamo: glitch, dub, techno-house al rallentatore e suoni vari, ma diamine quanto prende!

http://youtu.be/RbAxbvWCSOQ

Il 2002 lo vede in giro per il mondo a mietere consensi nelle due vesti di sperimentatore elettronico e dj (raffinato). Ed è infatti con Luomo che torna nel 2003, album The Present Lover, dove si fa più piacione e sessuale, ma provate a non muovere le natiche e a dondolare la testa e poi mi fate sapere. Dopo questa che sembra essere una sbornia di topa (o passera che si dir si voglia) come spesso accade il nostro mette la testa a posto concedendoci spazio anche per il gossip: si innamora e mica di una qualsiasi! nientepopodimeno che di Antye Greie, in arte AGF, un’altra prolifica sperimentatrice elettronica, insomma proprio pappa e ciccia. Eccoceli quindi subito lavorare insieme e pubblicare l’album Explode:

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/12/03-All-Lies-On-Us.mp3]

AGF/Delay – All Lies On Us

Come si può evincere non è musica per tutti i palati, un’elettronica particolarmente scarna e ficcante ma incredibilmente, grazie alla calda voce di Antye, anche molto avvolgente. L’album è davvero bello, come anche quello che lo seguirà, The Dolls, nome del progetto nel quale la coppia si avvale di un terzo membro, il pianista Craig Armstrong, che con il suo tocco aggiunge quel pizzico di trip-hop che rende il tutto forse ancora più unico. Grazie alla moglie quindi (ah sì, nel frattempo si sposano, hanno una bambina e rincasano al natio ghiaccio finlandese) il nostro ritorna su binari molto prossimi alla sperimentazione e decide di rispolverare (siamo nel 2006) il suo vecchio aka meno vendibile, Uusitalo; gli album saranno due, ma nel secondo Sasu ci miscela un po’ di Delay e un po’ di Luomo; il risultato è ancora una volta bhò, forse una dance per igloo.

Da questo momento in poi (mi) è sempre più difficile catalogare o spiegare la musica del nostro che davvero pare assurgere (meritatamente) a maestro intoccabile che può fare quello che vuole, e così, tornando al suo nome “famoso”con Whistleblower, crea cose di questo tipo:

Inizia il 2009 è sarà un altro anno intensissimo: 1) secondo album a nome AGF/Delay, ancora un potpourri di roba: synth-pop, avant-elettronica, techno-dub

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/12/09-Symptoms.mp3]

AGF/Delay – Symptoms

2) arriva su disco un progetto cominciato on stage l’anno prima a nome Moritz Von Oswald Trio; l’idea è la seguente: tre smanettoni dell’elettronica (il primo non ha bisogno di presentazioni e guida il terzetto, l’altro è Max Loderbauer) che si mettono a suonare come un trio jazz, quindi improvvisando parecchio. Inoltre il nostro torna anche al suo strumento originario, la batteria, ovviamente campionando e processando i suoni; l’album è Vertical Ascent e merita sicuramente un ascolto; 3) ancora un album a nome Delay e, vi dirò, più difficile che mai, Tummaa, questo il suo nome. Si sentono anche degli strumenti “veri” per la prima volta in un suo solo-album, ma sono trattati quasi in maniera industrial; insomma robetta difficile ma almeno un gran bel pezzo c’è:

Il 2010 scorre sopratutto lavorando dal vivo in giro per il mondo, sia da solo che con gli ultimi amichetti del MvOT. Ci sarà un’unica pubblicazione, stranamente a nome Sistol, On The Bright Side, che ancor più stranamente è più house-oriented anche de Luomo, comunque il lavoro scorre più che piacevolmente e lo renderà ancor più stimato nel settore club (è uscita anche una versione remixata dell’album da parte di altri producer). Personalmente ho goduto davvero non poco con la dance-hypnagogica di questo brano/video:

Il 2011, ci si può non credere ma, come il 2000, è ancora un anno-boom da quattro uscite/quattro nomi:

1) debutta il Vladislav Delay Quartet; è palese che il nostro c’ha preso gusto con il MvOT e ripropone gli stessi stilemi, salendo però in cattedra; sul suo sito la presenta così: VDQ is an expansive and multifaceted listening experience, consisting of Vladislav Delay (drums and percussions), Mika Vainio (electronics), Lucio Capece (bass clarinet and soprano sax) and Derek Shirley (double bass). Per chi non lo ricordasse Mika Vainio è uno dei due Pan-Sonic, quegli altri finlandesi autori di diversi capolavori (un’esperienza di vita è ascoltare il loro mostro in 4 cd Kesto). Ancora una volta vi posso dire che l’ascolto non è tanto facile; il pezzo che mi piace di più è assai kosmico.

2) seconda uscita del Moritz Von Oswald Trio, Horizontal Structures, migliore del precedente; meno ostico, con addirittura echi di chitarre e bassi funky. Qui la seconda struttura, anche questa molto kosmica, ma con reminescenze di antiche tribalità ormai microprocessate.

3) torna anche Luomo con l’album Plus e stavolta il tutto è molto soul e quindi non si può che sognare Chicago. Da godere senza troppo pensare.

4) Vantaa a nome Delay, ormai ennesimo grande album: ambient, glitch, dub, il tutto ovattato e liquido. E a proposito di liquido ho scovato questo in rete, un altro italiota che (forse) ama Delay, da Burano:

Nell’anno che sta ormai per terminare e con il quale, come sappiamo, terminerà l’umanità tutta il nostro ci ha regalato ancora una buona prova con il Moritz Von Oswald Trio, Fetch e, freschissima di pubblicazione, l’ultima fatica a nome Delay, Kuopio che ho finito di ascoltare proprio pochi istanti fa. Commenti a caldo:

Sasu è oramai un guru dell’elettronica, c’è poco da dire, sta imparando a miscelare molto sapientemente tutte le sue diverse anime, ma senza strappi nell’ascolto; me l’immagino suonare ad occhi chiusi; è sempre più emozionale ma anche sempre più incatalogabile (e sappiamo tutti che questo è un bene). Il più recente dei capolavori, ma sicuramente non l’ultimo.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/12/04.-Vladislav-Delay-Kellute.mp3]

Vladislav Delay – Kellute 

Lunga vita.

Postilla (e poi giuro che smetto): VD lo conoscevo da un paio d’anni, ho rischiato di vederlo dal vivo l’anno scorso e ne avevo ascoltato qualche album, poi, come spesso accade, l’uscita del suo ultimo disco me l’ha riportato alla mente e ho deciso di approfondirne le gesta e mi sono lasciato coinvolgere in alcune settimane d’ascolto. Alla fine è sempre inevitabile chiedersi (almeno per persone come me): perché l’ho fatto? ne è valsa la pena? ovvero: siate certi che, a meno di enormi imprevisti qualitativi, avrei portato comunque a termine la mia “missione”, cioè ascoltare tutti i suoi album; sono un completista, un fissato, ma so di non essere l’unico: ho letto di casi del genere nel libro (che vi consiglio tanto) di Reynolds Retromania. Insomma voglio andare a parare al punto che con Delay la missione la posso ritenere non solo portata a termine ma anche con risultati positivi (anche se ci sarebbe da fare tutta un’altra discussione su quando sia più il caso di ascoltare musica del genere, se ci sia un umore giusto e così via), ma alle volte le cose non vanno così e mi ritrovo ad aver ascoltato musica che poi mai più ho la voglia di riascoltare. Delle volte è frustrante perché pensi che ti stai perdendo altri ascolti, ma sopratutto perché pensi, se “da grande” non lavorerò in radio o farò il catalogo umano che me ne faccio di tutta questa roba? e: il mio cervello andrà in pappa prima o poi? e: qual è il senso della vita?