Stati mentali senza confini

Qualche tempo fa parlando del disco Songs from Kadebostany scrissi che non si trattava di uno stato con la esse maiuscola ma di uno stato mentale dell’autore, una musica nazionale di se stesso. Ma ancora non ero venuto a conoscenza dell’attività dell’ungherese László Hortobágyi, che da qualche decennio fa dischi che, se proprio volete un’etichetta, possiamo definire di etnofusion, anche se a me piace di più definirle musiche tradizionali del suo cervello. Uno dei suoi dischi si chiama “Traditional music of Amigdala”, e l’amigdala, come saprete, non è un paese ma la parte del cervello che gestisce le emozioni. Hortobágyi dunque è forse il primo che si è messo a suonare le musiche tradizionali di paesi che non esistono se non nella sua immaginazione musicale.

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László Hortobágyi – Anagatha

Nel 1967 Hortobágyi, come molti altri in quell’anno, va per la prima volta in India, registra suoni, voci e in particolare strumenti. Studia a fondo sitar, tabla, surbahar (in pratica il basso sitar, bellissimo suono) e la rudra vina. Nel 1980 fonda la società musicale “Gāyan Uttejak Mandal”, continuando ad approfondire la conoscenza delle musiche tradizionali, in particolare quelle indiane e islamiche, senza disdegnare i cori russi. Da solo, e con la Gaya Uttejak Orchestra (nel sito abbondano audio e video), fonde tutto questo con l’elettronica e i campionatori e il risultato sono una serie di dischi oscuri, tra la world- music e la new-age più dark e inquietante, che a volte sfiorano il kitsch – rischio prevedibile e inevitabile – ma che restano comunque unici e ammalianti.

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László Hortobágyi – Ayin Al Qaib

Si tratta di un genere di musica che davvero mette a dura prova anche orecchie pronte a tutto come le nostre. Esattamente in quale disposizione d’animo bisogna essere per ascoltare un disco intero di László Hortobágyi? Non saprei.  Alcuni titoli consigliati, se volete provare davvero qualcosa di diverso, oltre al già citato “Traditional music of Amigdala” (1991), sono “Ritual Music Of Fomal Hoot Al-Ganoubî” (1994), “6th All-India Music Conference” (1995) e “Songs From Hungisthán” (1996). Ce ne sono molti altri – e tutti con copertine bellissime – ma ancora non li ho sentiti.

L’idea di musica tradizionale globale (o quasi) mi ha ricordato Jon Hassell, che già alla fine degli anni 70 aveva iniziato a trafficare con trombe, strumenti tradizionali e sintetizzatori e a fondere tecniche orientali, minimalismo, elettronica e jazz, con l’intuizione di una musica del quarto mondo, che sarebbe la somma del terzo mondo con il primo. Occidente più India e Asia, ma non solo, ad esempio anche Africa. Una bella testimonianza dell’assenza di confini di Jon Hassell è questo video, un’esibizione con i Farafina, un gruppo del Burkina Faso con cui ha inciso il disco “Flash of the spirit” (1988):

Trombettista, collaboratore di Terry Riley e LaMonte Young e allievo di Pandit Pran Nath, Hassell applicò le tecniche dei raga alla sua tromba jazz, con risultati magici e innovativi, in dischi come il primo capolavoro “Vernal Equinox” (1977), “Dream Theory in Malaya” (1980) (il mio preferito), “Aka-Darbari-Java: Magic Realism” (1983) e “Possible Musics Fourth World” (1980) con Brian Eno, che poi si servirà dell’esperienza per il citatissimo e in qualche modo epocale “My Life In The Bush Of Ghosts” (1981) con David Byrne. Oltretutto, la tromba che sentite in Houses in Motion dei Talking Heads è proprio quella di Jon Hassell.

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Jon Hassell – Dream Theory

Sempre di India e sempre di viaggi fisici ma soprattutto mentali si può parlare a proposito di Ghédalia Tazartès e del suo ultimo disco. Se conoscete Ghédalia Tazartès e sapete scrivere il suo nome con gli accenti giusti senza doverlo cercare su Google, sapete anche che è uno di quelli che, almeno musicalmente, sembrano provenire proprio da un altro mondo. Ed è per questo che ci piace tanto. E’ musica etnica, ma di quale etnia esattamente? World-music, ma di quale world?

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Ghédalia Tazartès – Dire

Ma stavolta, per questo suo nuovo viaggio, abbiamo dei confini precisi, più o meno. Si tratta in realtà di due viaggi, compiuti da Ghédalia in Kerala, nell’India meridionale, il cui risultato è Coda Lunga, cd più dvd con le immagini registrate nel 1995. Ma non aspettatevi niente di particolarmente “indiano”, come già detto è soprattutto un viaggio dentro la sua testa. E se ogni disco di Ghédalia Tazartès è un viaggio (basta ascoltarli o anche solo leggere i titoli nella sua discografia) questo lo è più di ogni altro. Meraviglioso e assolutamente consigliato se volete viaggiare e trascendere generi e confini, attraverso culture, tradizioni e stati mentali.

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Ghédalia Tazartès – Shy

Aaaaaa! Jalla jalla! Ghisibene aella! A-aaaaa bree! (dice più o meno così)

Amici, fumatori d’oppio, capitani coraggiosi e furbi contrabbandieri macedoni, è tempo di aggiornarci sulle nuove meraviglie giunte dai deserti africani e dal vicino oriente. Ad esempio: Guitars From Agadez Vol. 2 di Group Bombino, Niger, un paese dove morire è molto facile (di fame, di guerra, di uranio) ma dove si fa musica che scalda il cuore. Si passa da pezzi acustici tuareg blues, a vero garage lo-fi desertico e polveroso spesso con registrazioni di bassa qualità che non fanno altro che aumentarne la bellezza. Consigliato a chi è alla ricerca di musica bellissima.

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Group Bombino – Imuhar

Jazeera Nights. Inutile spendere troppe parole, bastino quelle già spese in passato. La speranza è che la riserva segreta di cassette nel caveau della Sublime Frequencies non finisca mai. Faccio notare che la copertina è esattamente la stessa del disco precedente, il che dovrebbe farci intuire quali differenze ci siano in questa nuova compilation di pezzi di Omar Souleyman: NESSUNA. Quindi: 1) abbassare il finestrino, 2) alzare al massimo il volume dell’autoradio e 3) dichiarare guerra agli infedeli.  (tra l’altro…)

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Omar Souleyman – Hot Il Khanjar Bi Gleibi

Altra recente perla Sublime Frequencies: Omar Khorshid, il re dell’arabic-surf guitar.  Sulla leggitimità della sua monarchia non osiamo avanzare dubbi. Ipnotico e psichedelico, questo è il sito a lui dedicato. Egiziano di nascita, ha introdotto lo stile chitarristico occidentale nella tradizione araba e di ciò gli saremo tutti eternamente grati (gli è sicuramente grato Sir Richard Bishop dei Sun City Girls, dato che l’ha omaggiato ed emulato nell’album Freak of Araby).

In questa raccolta ci sono le cose più tradizionali e arabeggianti registrate in Libano tra il 1973 e il 1977, ma prima di morire nel 1981 a 36 anni in un incidente d’auto Omar Khorshid ha fatto anche deliziose cover di pezzi come Popcorn. Aggiungo che dall’altra parte del mondo “the king of the surf guitar” era considerato l’americano Dick Dale, che però era per metà libanese (e lo zio suonava l’oud, bello come tutto torna, no?).

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Omar Khorshid – Guitar El Chark

Ten Ragas To A Disco Beat, disco del 1982 di Charanjit Singh composto da raga che si trasformano subito in semplice ed elementare acid-house con synth e TR-808 a indicare la luna. Il Guardian indaga sulla misteriosa morte e l’altrettanto misteriosa rinascita di questo disco e sulla probabilità che il bollywoodiano Charanjit Singh sia il vero pioniere dell’acid house, dato che i primi pezzi rappresentativi del genere solitamente vengono considerati quelli della Chicago della seconda metà degli anni 80.

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Charanjit Singh – Raga Bhairav

In tema di raga tradizionali invece consiglio il bellissimo raga blog, sito che mette a disposizione tonnellate di ottimi trip per cuocere a fuoco lento i vostri neuroni. A causa di altri impegni tipo vivere non sono riuscito ancora a sentirli tutti, ma tra quelli che sono riuscito a sentire fin’ora segnalo in particolare i dischi della famiglia Dagar, maestri del canto dhrupad, tutta roba che prenderà il vostro cervello e lo farà passare attraverso i vari stati della materia. Qui simpatiche foto di famiglia e anche l’invidiabile albero genealogico della Dagar Family.

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2010/05/02-Bairagi-Dhamar.mp3|titles=02 – Bairagi, Dhamar]
Dagar Brothers – Dhamar