Musica dal mondo (vol. 2)

Vol. 1. Questa volta è stata la scoperta di alcune raccolte della sempre lodata Sublime Frequencies a fornirmi lo spunto per nuove ricerche che hanno portato alcuni succosi frutti e ancora ne porteranno, ne sono certo:

http://youtu.be/X8eSSybFb8o

e ora la danza:

ritornando verso est:

http://youtu.be/TQDS8tBqSAY

ora musica che richiede attenzione:

gli immancabili film indiano-pakistani (assolute chicche anche le immagini):

infine i musicisti di strada (nella cui ricerca è possibile perdersi innumerevoli volte):

e proprio l’ultimissima cosa in chiusura: suggerisco la ricerca di quest’album: My Friend Rain. Saludos Amigos.

Musica dal mondo (vol.1)

Straordinari blog che raccolgono musica dal mondo, lo sappiamo, ne esistono moltissimi oramai (e meno male). Proprio vagando in alcuni di questi ho scovato alcune chicche; e la voglia di condivisione era tanta che non ho ancora effettuato ricerche specifiche per ogni artista: di molti non conosco l’epoca, lo stile e finanche il paese! So solo che alcuni di questi schiudono mondi ancora per me inesplorati e tanto mi basta per godere. Ve li propongo:

http://youtu.be/4N4OLtDqECo

chiudo con un brano già proposto, ma eccezionale, che merita di essere presente:

Stelios Kazantzidis / Στέλιος Καζαντζίδης

Da ascoltare non meno di dieci volte di seguito. Al giorno. Qui il testo.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/18-stelios-kazantzidis-efuge-efuge.mp3]

Stelios Kazantzidis – Efige Efige

Dedicata alla memoria di Frank. Volevi fare la cosa giusta, non ti dimenticheremo.

E si veda anche Το ψωμί της Ξενιτιάς.

Stati mentali senza confini

Qualche tempo fa parlando del disco Songs from Kadebostany scrissi che non si trattava di uno stato con la esse maiuscola ma di uno stato mentale dell’autore, una musica nazionale di se stesso. Ma ancora non ero venuto a conoscenza dell’attività dell’ungherese László Hortobágyi, che da qualche decennio fa dischi che, se proprio volete un’etichetta, possiamo definire di etnofusion, anche se a me piace di più definirle musiche tradizionali del suo cervello. Uno dei suoi dischi si chiama “Traditional music of Amigdala”, e l’amigdala, come saprete, non è un paese ma la parte del cervello che gestisce le emozioni. Hortobágyi dunque è forse il primo che si è messo a suonare le musiche tradizionali di paesi che non esistono se non nella sua immaginazione musicale.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/01.Anagatha.mp3]

László Hortobágyi – Anagatha

Nel 1967 Hortobágyi, come molti altri in quell’anno, va per la prima volta in India, registra suoni, voci e in particolare strumenti. Studia a fondo sitar, tabla, surbahar (in pratica il basso sitar, bellissimo suono) e la rudra vina. Nel 1980 fonda la società musicale “Gāyan Uttejak Mandal”, continuando ad approfondire la conoscenza delle musiche tradizionali, in particolare quelle indiane e islamiche, senza disdegnare i cori russi. Da solo, e con la Gaya Uttejak Orchestra (nel sito abbondano audio e video), fonde tutto questo con l’elettronica e i campionatori e il risultato sono una serie di dischi oscuri, tra la world- music e la new-age più dark e inquietante, che a volte sfiorano il kitsch – rischio prevedibile e inevitabile – ma che restano comunque unici e ammalianti.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/02.-Ayin-Al-Qaib-Eye-Of-The-Heart.mp3]

László Hortobágyi – Ayin Al Qaib

Si tratta di un genere di musica che davvero mette a dura prova anche orecchie pronte a tutto come le nostre. Esattamente in quale disposizione d’animo bisogna essere per ascoltare un disco intero di László Hortobágyi? Non saprei.  Alcuni titoli consigliati, se volete provare davvero qualcosa di diverso, oltre al già citato “Traditional music of Amigdala” (1991), sono “Ritual Music Of Fomal Hoot Al-Ganoubî” (1994), “6th All-India Music Conference” (1995) e “Songs From Hungisthán” (1996). Ce ne sono molti altri – e tutti con copertine bellissime – ma ancora non li ho sentiti.

L’idea di musica tradizionale globale (o quasi) mi ha ricordato Jon Hassell, che già alla fine degli anni 70 aveva iniziato a trafficare con trombe, strumenti tradizionali e sintetizzatori e a fondere tecniche orientali, minimalismo, elettronica e jazz, con l’intuizione di una musica del quarto mondo, che sarebbe la somma del terzo mondo con il primo. Occidente più India e Asia, ma non solo, ad esempio anche Africa. Una bella testimonianza dell’assenza di confini di Jon Hassell è questo video, un’esibizione con i Farafina, un gruppo del Burkina Faso con cui ha inciso il disco “Flash of the spirit” (1988):

Trombettista, collaboratore di Terry Riley e LaMonte Young e allievo di Pandit Pran Nath, Hassell applicò le tecniche dei raga alla sua tromba jazz, con risultati magici e innovativi, in dischi come il primo capolavoro “Vernal Equinox” (1977), “Dream Theory in Malaya” (1980) (il mio preferito), “Aka-Darbari-Java: Magic Realism” (1983) e “Possible Musics Fourth World” (1980) con Brian Eno, che poi si servirà dell’esperienza per il citatissimo e in qualche modo epocale “My Life In The Bush Of Ghosts” (1981) con David Byrne. Oltretutto, la tromba che sentite in Houses in Motion dei Talking Heads è proprio quella di Jon Hassell.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/Jon-Hassell-Dream-Theory-In-Malaya-03-Dream-Theory.mp3]

Jon Hassell – Dream Theory

Sempre di India e sempre di viaggi fisici ma soprattutto mentali si può parlare a proposito di Ghédalia Tazartès e del suo ultimo disco. Se conoscete Ghédalia Tazartès e sapete scrivere il suo nome con gli accenti giusti senza doverlo cercare su Google, sapete anche che è uno di quelli che, almeno musicalmente, sembrano provenire proprio da un altro mondo. Ed è per questo che ci piace tanto. E’ musica etnica, ma di quale etnia esattamente? World-music, ma di quale world?

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/03-Dire.mp3]

Ghédalia Tazartès – Dire

Ma stavolta, per questo suo nuovo viaggio, abbiamo dei confini precisi, più o meno. Si tratta in realtà di due viaggi, compiuti da Ghédalia in Kerala, nell’India meridionale, il cui risultato è Coda Lunga, cd più dvd con le immagini registrate nel 1995. Ma non aspettatevi niente di particolarmente “indiano”, come già detto è soprattutto un viaggio dentro la sua testa. E se ogni disco di Ghédalia Tazartès è un viaggio (basta ascoltarli o anche solo leggere i titoli nella sua discografia) questo lo è più di ogni altro. Meraviglioso e assolutamente consigliato se volete viaggiare e trascendere generi e confini, attraverso culture, tradizioni e stati mentali.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/07-Shy.mp3]

Ghédalia Tazartès – Shy

Irmãos da Gorongosa, giovani alfieri del DIY in Mozambico

Siamo in Mozambico, Africa Orientale, uno stato dove si parla portoghese, e più precisamente ci troviamo nel parco nazionale di Gorongosa. Chitarre e batterie sono fatte a mano con materiale di recupero, insomma vero Do It Yourself. Per il resto ci sono cuore, noise e serpenti che passano indisturbati tra gli strumenti. Il gruppo protagonista di questi due video (anche se sembrano due gruppi diversi, non ho capito bene) sono gli “Irmãos da Gorongosa”, cioè i fratelli di Gorongosa. In realtà potrebbero essere anche i Muera, non sono riuscito a capirlo, comunque il chitarrista possiamo definirlo il Mizutani mozambicano. Alzate il volume e cliccate play.

A parte questi due video e la cronaca della giornata nel sito istituzionale del parco, non si trovano altre informazioni sulla “scena musicale” (!) dei gruppi di Gorongosa, ed è un peccato che qualcuno non sia andato a indagare, registrare e filmare qualcosa di più. All’inizio di questo secondo video si può vedere un serpente avvicinarsi all’amplificatore e poi scappare sotto la batteria.

Un altro loro pezzo si può sentire in questo video, sempre del parco nazionale del Gorongosa.

Il tutto ovviamente ci rimanda ad altre meraviglie passate, come i grandissimi e ben più famosi Konono N°1 – che costruivano ed elettrificavano i loro strumenti con parti di automobili e altri materiali di recupero – il cui album Congotronics qualche anno fa spalancò menti e orecchie di mezzo mondo (beh, più o meno).

Ma ci sono anche altri piccoli esempi. Molto più piccoli. A questo proposto ricordo i Thandabantu, ovvero due fratelli di 8 e 10 anni che suonavano nelle strade di Cape Town con strumenti fatti da loro e una tastiera comprata con i primi soldi guadagnati come musicisti.

Batteria fatta a mano da una band locale di Gorongosa

(grazie a onq per la preziosa segnalazione)

Aborigeni e marziani

Dopo le dritte su Francis Bebey provo a molestare le vostre orecchie con uno spazio dedicato ai dischi dimenticati forse anche da chi li ha fatti. Chiediamocene il perché tutti insieme.

The 13th Tribe – Ping Pong Anthropology (1992)

Nonostante lo humour del titolo e della copertina, i componenti di questo progetto berlinese hanno l’aria di quelli che un po’ ci credono, dato che tengono a sottolineare nelle note del disco che non troverete traccia di elettronica o sampling. E non c’è nemmeno il didgeridoo, anche se sembrerebbe. Invece quei suoni lì provengono da flauti e clarinetti di plexiglass e PVC che Werner Durand si è costruito da sé dimenticandosi (di proposito) di farci dei fori, e che suona in un continuo botta e risposta assieme al norvegese Erik Balke (i due manco a dirlo sono studiosi, di musica indiana e iraniana il primo, di africana e balinese il secondo).
Da non cultore degli strumenti a fiato ringrazio anche la presenza della brasiliana Silvia Ocougne, che con la sua chitarra elettrica pizzicata e suonata col martelletto mette in mezzo un po’ di colpi ad effetto. Completano il campo da gioco varie percussioni, tra cui ossa e lattine.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/the-13th-tribe-03-khazar.mp3]
The 13th Tribe – Khazar

Organizzassero delle olimpiadi aborigene sarebbe il giusto background per infondere un po’ di sacro agonismo durante le competizioni di cannibalismo, circoncisione, lancio del boomerang e tiro dell’anello al naso. C’è anche la cerimonia (funebre?) di chiusura.

Un simpaticone su YouTube ha pensato bene di caricare un loro brano sovrapponendo alle racchette della cover una pallina in movimento (a dire il vero pare più una luna in miniatura). Se la osservate per più di 30 secondi finite sotto ipnosi, fate attenzione bambini.

Rimanendo nello stesso ambito segnalo un altro gruppo, stavolta formato nella San Francisco della New Wave, che ha provato ad inventarsi un’immaginaria world music, in questo caso ibridando però gamelan e musica elettronica.

Gli Other Music suonano scale microtonali che seguono la just intonation; cioè, provando a spiegarlo a un cane come me, se ogni metallofono che fa parte di un’orchestra gamelan è già di suo uno strumento microtonale, perché non ha ottave da 12 intervalli come gli strumenti più comuni, quelli che si son costruiti loro nello specifico ne hanno 14 diseguali (cioé non della stessa lunghezza) per ottava, e ognuna delle 14 note ha una frequenza che risulta semplicemente da frazioni di numeri interi, un po’ come voleva il buon Pitagora (che ora non posso evitare di immaginare con la faccia di Terry Riley). Combinandoli a un synth (il Prophet V) e ad altra roba tra cui sax, corno, violoncello, chitarra elettrica, e, nella traccia qui sotto, a un hammered dulcimer (cioè il salterio, chiamato in oriente santur), il risultato unico, a volte marziano più che indonesiano, a volte un po’ jazzy (l’incipit mi ricorda i Residents), è stato Incidents Out of Context (1983).

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/05-The-Spirit-Is-Willing.mp3]
Other Music – The Spirit Is Willing

Francis Bebey

Artista, musicista e scrittore del Camerun, abbastanza noto nel suo paese e in Francia, Francis Bebey è stato autore di un curioso etno-jazz elettronico. Negli anni 70 si è procurato un sintetizzatore e una drum machine e nei decenni successivi ha rilasciato una ventina di dischi dai suoni magici e insoliti. Ad esempio in questo bellissimo Akwaaba del 1985 aggiunge il basso elettrico a strumenti più tradizionali, come la Sanza (magari l’avete già sentita nominare come Mbira). Il risultato è magnifico e bizzarro. In “Bissau” passa senza soluzione di continuità dalla scanzonatezza alla Oronzo Canà che va in Brasile a comprare Aristoteles al dramma abissale della voce che alla fine del ritornello si incanta in un inaspettato urlo quasi harsh noise:

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/02.-Bissau.mp3]
Francis Bebey – Bissau


Il disco è stato ristampato dalla tedesca Trikont con un altro titolo, African Moonlight. Molto consigliati anche altri pezzi dalla bellezza indescrivibile come Sassandra e Tumu Pakara.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/04.-Tumu-Pakara.mp3]
Francis Bebey – Tumu Pakara

Recentemente poi è uscita questa raccolta “African Electronic Music 1975-1982”, ascoltabile dal sito della Bord Bad Records.

Francis Bebey (1929/2001)

[con questo post diamo il benvenuto all’amico mongodrone, che condivide con noi la passione per esotismi, elettronica esoterica e oscurità di vario genere. finegarten]

Giusto un po' di musica meravigliosa dalla Mauritania

“Saphire D’Or”, Nouakchott, Mauritania. Fanculo iTunes.

Nouakchott è la capitale della Mauritania. Ricordatevi come scrive se vi capita di fare cruciverba, perché non se ne parla molto spesso. E a Nouakchott c’è un negozio di dischi che non è proprio un negozio di dischi. Si chiama “Saphire D’Or” e il suo proprietario, Ahmed Vall, ha passato trent’anni a raccogliere una collezione piuttosto eclettica di musica dell’Africa occidentale. Vinili e cassette, pop, funk, afro-beat, musica del deserto e rarità di ogni genere. Non è proprio un negozio di dischi perché la musica non si compra: paghi e lui te la copia. Trenta centesimi di dollaro a canzone. Quindi molto meno di iTunes, e il posto è senza dubbio molto più figo. Oppure puoi stare lì, parlare con lui, cercare qualche disco e sorseggiare il tè. Tra i suoi clienti più entusiasti pare ci siano tassisti che copiano i dischi su memorie USB che poi usano per trasmettere la musica nei loro taxi.

C’è un articolo del Guardian che racconta un po’ la storia e poi questo bel post di Cristopher, il blogger autore di Sahelsounds, blog altamente consigliato se amate certe sonorità. Ma dato che si parla di Mauritania direi che è il momento di dire due parole sui miei dischi mauritani preferiti. Diciamo che si tratta più che altro di vere ossessioni.

Uno è “Moorish Music from Mauritania” di Dimi Mint Abba e Khalifa Ould Eide, moglie e marito. Lei vabbè, in teoria non avrebbe bisogno di presentazioni, ma non è vero, dato che finchè non ho intercettato del tutto casualmente un suo video nemmeno io la conoscevo. Detta “la diva del deserto”, è stata una figura importantissima della musica mauritana, anzi diciamo pure la più importante. E’ grazie a lei che il resto del mondo ha conosciuto il meraviglioso mix di sonorità arabe e africane tipiche della Mauritania. La Mauritania infatti fa parte dell’Africa araba: la popolazione è composta da arabi 30%, neri 30%, origine mista (arabo-nera) 40%, mentre il 99,84% degli abitanti professa la religione islamica (fonte: Wiki).

Khalifa Ould Eide e Dimi Mint Abba
Khalifa Ould Eide e Dimi Mint Abba

Detto ciò, il suo “Moorish Music from Mauritania” è qualcosa di meraviglioso e indescrivibile, un disco da sentire e risentire. Io ad esempio non riesco a smettere di ascoltare questo pezzo: e ogni volta, quando dopo due minuti partono cori e percussioni, ho un sussulto al cuore.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/01-Waidalal-Waidalal.mp3]

Dimi Mint Abba & Khalifa Ould Eide – Waidalal Waidalal

Dimi Mint Abba è morta nel 2011 – come sicuramente ricorderete dalle prime pagine dei siti e dei giornali italiani, come no – all’età di 52 anni, a causa di un’emorragia cerebrale. Durante la sua carriera si è battuta per i diritti delle donne (sempre molto a rischio in Mauritania) e per quelli degli artisti, appartenenti alla casta degli iggawin, considerati agli ultimi posti nella società mauritana. Il suo successo iniziò con la canzone “Sawt Elfan” (“piuma dell’arte”), dai contenuti abbastanza scandalosi perchè nel ritornello diceva più o meno che è meglio fare musica che fare i guerrieri. Curiosità: il padre di Dimi Mint Abba è stato l’autore dell’inno nazionale della Mauritania. Comunque su Youtube sono presenti numerosi video grazie ai quali è possibile vederla in azione.

Lei invece è Ouleya Mint Amartichitt ed è un’altra di cui mi sono innamorato quest’estate. L’album che ho trovato – non senza difficoltà – è lo strepitoso “Praise songs”, che trovate su Soulseek oppure in cd usato su Ebay. Su di lei ho trovato poche, pochissime informazioni, ma per fortuna c’è il video che segue.

Tenores de Aterúe, il canto a tenore americano

Gruppo di canto a tenore composto da americani. Ebbene sì. Rileggete bene la frase, avete capito bene.

American male quartet singing a traditional Sardinian “Cantu a Tenore” folk song, “Ballu Dillu (A Sa Campagna).” We learned this dance song from a recording by Tenores di Bitti.

The singers are: Gideon Crevoshay (mesu oche), Carl Linich (contra), Avery Book (bassu), Doug Paisley (oche). Recorded at our second concert appearance, January 24, 2011, in Williamstown, Massachusetts, USA.

Tenores de Aterúe significa “Tenores di Altrove”.

Rispetto totale.