Bignami per la Liberazione della Musica Elettronica Popolare Preistorica

Credo di avere una predilezione particolare per i primi sconosciuti musicisti elettronici “pop”.

Contrariamente agli innovatori della musica d’avanguardia, che ne aumentavano la complessità chiudendosi in una sperimentazione troppo intellettuale e poco intuitiva, loro han provato piuttosto a “giocare” con le nuove possibiltà del nastro magnetico e dei primi enormi sintetizzatori, quasi del tutto isolati (per fortuna esistevano i laboratori radiotelevisivi) e contro tutto e tutti: le tecnologie nei ’50 e ’60 erano ancora primitive e sia il pubblico colto che la cultura di massa non erano pronti a farsi intrattenere da sonorità che non erano né seriose né familiari.

Se le avanguardie colte, pur avendo ispirato generi come il glitch o l’industrial, non sono forse riuscite di per sé a raccontare l’umanità del futuro, questi personaggi non solo l’hanno prevista, ma sembravano essi stessi arrivati dal futuro, o perlomeno da una dimensione parallela.

Ma prima mettetevi composti, cominciamo con una piccola cronostoria (se cercate qualcosa in più sul lato tecnico, provate qui).

Alcuni dei primi strumenti elettronici furono: il gigantesco Thelarmonium (che ispirò anche l’organo Hammond del 1935), costruito nel 1897 o giù di lì, e di cui purtroppo non ci sono registrazioni dell’epoca, il Theremin (1919), l’Onde Martenot (1928) e il Trautonium (1929), ma non riuscirono più di tanto a rivoluzionare il mondo della musica. Il curiosissimo ma un po’ arido Theremin e l’Onde Martenot furono comunque abbastanza considerati da Edgar Varese durante gli anni ’30.

In tanti avranno sentito parlare del futurista Luigi Russolo, in realtà precursore della musica noise. I suoi Intonarumori (1913) erano infatti apparecchi meccanici che generavano rumori acustici (non armonici); si trattava insomma sempre di far vibrare dei materiali come corde o lastre metalliche, etc.

John Cage nel 1939 inserì il suono di due grammofoni amplificati in una composizione con strumenti più tradizionali, il risultato fu Imaginary Landscape #1.

Pare però che il primo a conservare fino ai giorni nostri le proprie manipolazioni di musica interamente registrata non fu Pierre Schaeffer, ma un egiziano (i lettori accaniti di Guylum Bardot ne saranno soddisfatti!).

Halim El-Dabh compose Wire Recorder Piece (nel 1944, a 23 anni), modificando grazie a un registratore a filo preso in prestito da una Radio del Cairo (che al posto del nastro magnetico aveva ancora appunto un filo d’acciaio) i canti di un’antica cerimonia egiziana Zar, che pare servisse a curare malattie mentali. Niente male.

Il primo prototipo di mangianastri è stato il britannico Blattnerphone (1929 o 1930), seguito dal magnetofono tedesco della AEG (1935).

La musica concreta di Pierre Schaeffer nacque ufficialmente nel 1948 (erano comunque almeno 5 anni che ci rimuginava), ma nel Club d’Essai della Radiodiffusion-Télévision Française furono utilizzati generalmente grammofoni, filtri, e poi microfoni per registrare il tutto. Si servirono del nastro magnetico solo qualche anno dopo.
Karlheinz Stockhausen compose il suo primo pezzo di musica elettroacustica, Etude(1952), proprio lì, con il Phonogène, uno strumento costruito da Schaeffer (nella foto) che funzionava coi nastri ma aveva persino una tastiera di un’ottava. Comunque pare che il pezzo gli facesse schifo.

L’anno prima, sempre alla RTF, Pierre Henry aveva inciso Le microphone bien temperé (sempre per nastro), forse la composizione più completa nel suo genere, almeno di questi esordi.

In America invece, sempre nel 1952, al MoMA di New York, Otto Luening e Vladimir Ussachevsky presentavano il primo concerto di musica per nastro magnetico. In Low Speed, ad esempio, c’è un flauto messo in feedback e non so che altro, mi ha fatto venire in mente un po’ i Throbbing Gristle.

A Colonia anche Herbert Eimert e Robert Beyer sperimentavano sul nastro magnetico negli studi della Nordwestdeutscher Rundfunk in cui fu poi di casa anche Stockhausen. Il loro Klangstudies II (sempre del 1952), pur non essendo ancora melodico, ha un suono più pulito e sintetico, merito del Melochord, strumento a tastiera costruito nel 1947 da Harald Bode, e di un oscillatore che generava onde sinusoidali.

Ma tutto ciò di cui si è parlato finora è forse più accostabile alla sperimentazione tecnica – e quindi alla fascinazione intellettuale – che all’ascolto vero e proprio.
Si può insomma essere “profondi” anche nell’immediatezza: se l’immaginazione non ha un appiglio un poco più intuitivo è difficile arrivare a provare una qualche impressione sentimentale.

Proviamo dunque a concentrarci sugli albori della melodia nella musica elettronica.

A rigor di logica le prime melodie elettroniche – perlomeno quelle incise da qualche parte – non possono che essere nate grazie ai jingles delle reti televisive. Ma a volerci soffermare su quelli che sono i primi brani completi del genere, che superino insomma 1 o 2 minuti, a spuntare è sempre lui: Raymond Scott.

Il primo esempio della musica che nei ’60 lo farà grande (ma per pochi), è The Rhythm Modulator, pezzo ancora un po’ scarno, composto tra il 1955 e il 1957, nei suoi studi di Manhattan, dove tra le varie cose inventò il Clavivox, grazie anche alla conoscenza di Robert Moog (il cui famosissimo synth vedrà luce nel 1964, ma non distraiamoci). Un altro brano che trovate nella raccolta Manhattan Research Inc. è Lightworks, composto tra il 1960 e il 1963, forse uno dei più “moderni dentro”.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/230-lightworks-instrumental.mp3]
Raymond Scott – Lightworks

Meanwhile, in Olanda, all’interno dei Laboratori della Philips si faceva la storia, grazie a Tom Dissevelt, Dick Raaymakers (nome in codice Kid Baltan) ed Henk Badings, quest’ultimo guarda caso nato a Java quando era colonia olandese, sempre per la gioia dei lettori più stramboidi (sarà anche per questo che Dissevelt ha scritto il primo pezzo elettronico ispirato al gamelan nel 1963?). In questo video potete vedere i primi due che tagliano e incollano con lo scotch i nastri in cui venivano registrate le forme d’onda generate da macchinari poco comprensibili.

Popular Electronics: Early Dutch electronic music from Philips Research Laboratories, 1956-1963 è un box di 4 cd uscito nel 2004 per l’etichetta olandese Basta (ma speriamo invece continui), e raccoglie i brani di cui sto per parlare e altro ancora.
Badings ha musicato un balletto teatrale messo in scena all’Holland Festival nel 1956, Cain and Abel. Lo stile è ancora caotico e a volte frammentario, ma non ostico come certa elettroacustica o acusmatica (ricordiamo che per acusmatici si intendono i suoni derivati sempre da registrazioni concrete ma diventati totalmente avulsi e astratti); l’introduzione e il primo episodio hanno una “piacevole” immediatezza d’ascolto nella loro tensione da psichedelia horror.

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Henk Badings – Cain and Abel, first episode

Il primo 33 giri di musica elettronica pop (anche se i brani con un vero motivetto pop sono la metà) ha avuto due versioni leggermente diverse, non solo per i nomi dei titoli: la Philips ha fatto uscire The Fascinating World Of Electronic Music a nome Tom Dissevelt & Kid Baltan nel 1959, diventato nel 1962 Elektrosonics: Electronic Music; se vi interessa tra le varie ristampe pare ne sia uscita un’altra quest’anno in CD per la Omni. I due hanno curato comunque brani diversi: il brano più antico (uscito come 45 giri nel 1957) è Song of The Second Moon di Baltan, ma a spiccare è Orbit Aurora, creata da Dissevelt nel 1958 col nome originario di Syncopation. Sembra di stare all’interno di una fiaba futuristica, o di qualche pianeta parallelo.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/06-orbit-aurora.mp3]
Tom Dissevelt – Orbit Aurora

L’aneddoto più bello riguarda comunque questo tizio qui sopra, Raaymakers, che era solito condurre un’esistenza riparata, dedicandosi alle sue apparecchiature; nel 1965 il suo agente lo chiamò per proporgli di fare la colonna sonora di un film di fantascienza di un giovane regista… il cui nome non gli disse nulla, e poi era stanco, e non aveva tempo… peccato, Kubrick ci rimase male.
La loro musica è rimasta così a prendere polvere, anche se pure artisti come David Bowie han dichiarato di esserne rimasti folgorati.

Due cose però sono mancate a queste melodie: ritmo e canto, e qualcuno qui rimpiangerà i Kraftwerk.
I tedeschi, infatti, se dal 1970 si erano ispirati alle musiche elettroniche colte mischiandole al rock (Kluster e Tangerine Dream facevano già a meno del rock, ma di certo non erano pop), poi via via si erano affrancati da elementi acustici o soltanto elettrici, arrivando prima con Autobahn (1974) e poi maggiormente con Radioactivity (1975), a unire alle melodie elettroniche ritmi sintetici e canto.

Di canzoni con musica elettronica ce n’erano già state molte: ci avevano pensato per primi i newyorkesi Silver Apples (1968) e Fred Weinberg (sempre nel 1968, con la beatlesiana Animosity), e gli White Noise (1969) di Delia Derbyshire, autrice di musiche ed effetti sonori al Radiophonic Workshop della BBC dal 1962; ma i suoni elettronici non coprivano tutte le componenti della loro psichedelia.

Una menzione particolare voglio darla a Cecil Leuter, il cui Pop Electronique n°2 (1969), pur non avendo cantato nè drum machine, sembra una versione per Moog di Fatboy Slim, o qualcosa del genere.

In realtà dei primi pionieri in fatto di canzoni interamente elettroniche, anche se con ritmi un po’ grezzi, Guylum Bardot ha già parlato altrove, con Mort Garson e il suo Wozard of Iz (1969) e soprattutto il Bruce Haack di Electric Lucifer (1970). Il disco di Garson i suoi anni li sente un po’ troppo, mentre Haack, anche se sempre in stile psichedelico, si difende molto meglio (c’è persino il vocoder; ma sentite la strumentale Supernova, pare uscita ieri).

Concludiamo allora con un personaggio ancor più strampalato, pioniere per caso di un pop elettronico quasi senza tempo.

Hans Edler, adesso musicista mainstream in patria (i suoi altri video su youtube fanno 30.000 visualizzazioni), prese nel 1969 (a 23 anni) delle lezioni all’Elektron Musik Studion di Stoccolma, centro di sperimentazione attivo dal 1960, e lì, su quei grossi sintetizzatori incastonati nel mogano, ebbe non si sa come la possibilità di registrarci un disco due anni dopo (speriamo non grazie a comportamenti lascivi, il fatto è che quella copertina ci inquieta un po’).


Elektron Kukéso (500 visualizzazioni) è un disco allo stesso tempo naif e sorprendente: nelle quattro canzoni sembra di sentire la voce di un Brain Eno sbronzo. Il resto sono più che altro nenie liturgiche (buone per un film di Bergman).

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2012/10/07-hans-edler-det.mp3]
Hans Edler – säg vad Är det

Durante le canzoni vere e proprie la musica è un misto di tastierine bambinesche, accordi tonali, e di frastuoni sintetici (un intruglio di avanguardia e pop da non credere); mentre sullo sfondo delle cantilene ci sono soltanto i rumorismi e i blip blop da computer impazzito. L’EMS di Stoccolma era rinomato infatti per gli studi sulla composizione programmata al computer.

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2012/10/02-hans-edler-langt-bort.mp3]
Hans Edler – långt bort

Per chiudere il disco si permette pure uno strumentale, sempre funebre e pieno di Bzzzz, Shhhhh e Ktttrrr. Di ritmiche comunque neanche l’ombra, ma possiamo perdonarglielo, era giusto lasciare qualcosa da fare ai Kraftwerk.

Hunting tigers out in India


Questa era una canzone che dieci anni fa avevo su una compilation di roba bizzarra e psichedelica degli anni 60 e che amavo cantare quando nessuno mi poteva sentire. Fino ad oggi non avevo mai visto il video e dunque ho voluto condividere con voi quest’emozione (anche se è possibile che non vi dica niente, anzi molto probabile: ma io ci provo). La Bonzo Dog Doo-Dah Band è stata una mitica band inglese di quelle non facilmente definibili. Diciamo qualcosa a metà tra un eccentrico gruppo satirico-demenziale, un collettivo psichedelico-dadaista e i Monty Python. Per dire: facevano anche pezzi come questo e si esibivano in uno show per bambini della tv inglese – che è sempre stata avanti di ERE rispetto a quella italiana, com’è noto – e tra i loro fan c’erano i Beatles. Per chi è interessato e vuole fare il recuperone c’è questa poderosa antologia che contiene tutto quello che c’è da conoscere.

Musica da rifugio antiatomico


Nonostante sia fissato con classifiche, elenchi e listoni di vario genere, quel giochino dei dischi fondamentali da portare su un’isola deserta non mi ha mai veramente convinto principalmente perché proprio non riesco a immaginare di ascoltare musica su un’isola deserta. Ho bisogno di uno spazio chiuso, ristretto: non a caso anche il Desmond di Lost aveva una collezione di vinili che ascoltava solo perchè viveva in un bunker, sebbene su un’isola più o meno deserta, eppure una volta uscito fuori non ricordo che abbia mai avuto momenti di nostalgia. L’idea di rifugio sotterraneo è più vicina alla mia idea di musica e soprattutto è più simile alla clausura invernale, il periodo dell’anno in cui la frequenza degli ascolti è più alta assieme alla settimana precedente al ferragosto. Ecco quindi che, complice la noia di agosto e il fatto che su tumblr è maledettamente facile aprire un blog, ho deciso di aprire un mio personale e intimo spin-off di Gulyum Bardot dove segnare i 100 dischi che mi porterei in un rifugio antiatomico. Non me lo immagino un posto grigio e triste, ma anzi un posto bellissimo simile ai magnifici palazzi sotterranei descritti nelle Mille e una notte, quelli a cui accedi da una quasi invisibile fessura nel terreno, percorri degli scalini bui e di colpo ti ritrovi in sale lussuose e gigantesche con tappeti, cuscini, frutta e amplificatori. Sì in pratica più o meno come i bunker dei camorristi, ma si spera con musica migliore.

Non è una classifica dei migliori o dei più importanti, ma proprio i miei preferiti di sempre – cioè i miei preferiti di sempre fin qui – quindi preparatevi anche a cose inspiegabili o imbarazzanti. E a copertine molto grandi.

LINK: 100 dischi nel bunker

"Esibizioni più o meno strambe di musica strambissima": ecco cosa si dissero John Cage e Mike Bongiorno

Della partecipazione di John Cage a Lascia o raddoppia nel 1959 avevamo già parlato in questo post del 2009. Per un periodo c’era perfino chi pensava che potesse essere una leggenda metropolitana – anche perché nella biografia di Mike ci sono diverse cose a metà tra realtà e mito – ma le testimonianze sono tante e c’è perfino una foto, anche se continua a mancare la testimonianza video o quantomeno audio. Ci andiamo vicini con questa trascrizione dell’ultima puntata (jpeg 1,44 MB) a cui prese parte Cage, che comprende i dialoghi tra il compositore e grande teorico musicale e il conduttore televisivo Bongiorno, l’everyman di quegli anni secondo la celebre definizione di Umberto Eco nella sua “Fenomenologia di Mike Bongiorno”. Nella trascrizione si parla principalmente di funghi, dato che Cage partecipava al programma in qualità di esperto micofilo (sul perché e il per come vi rimando a un post di Marco Lenzi che si è occupato più volte della vicenda e a un post del 2003 di Ventura) ma c’è anche una parte divertente dove Bongiorno dileggia lo “strambo” Cage.

In questo scambio di battute molti fan di John Cage ci vedono l’ignoranza al limite del bullismo di Bongiorno nei confronti del genio incompreso, ma io sinceramente non ci vedo nulla di male nemmeno nella famigerata battuta di commiato (“Era meglio il contrario”): mi sembra una semplice battuta. Cage era un personaggio strambo, e sicuramente stramba fu la sua performance con vasca da bagno, piano, innaffiatoio, pentola a vapore ecc., e in un contesto nazional-popolare come quello di Lascia o raddoppia non poteva che essere trattata con ironia. Va detto poi che anche oggi Cage è a suo modo diventato pop: mi capita spesso di vederlo usato come occasione di ironia nei forum o nei commenti dei video di Youtube, dove molti giovani commentatori consigliano l’ascolto di 4.33 (recentemente suonata, sempre con ironia, anche durante un programma tv italiano).

Alcuni stralci della puntata erano già apparsi negli anni in vari siti ma questa credo sia la prima volta che possiamo leggere la trascrizione integrale dell’ultima puntata, e di ciò ringrazio Carmine/errennepi, responsabile dello scan di questa pagina di Gong, rivista musicale degli anni 70 che, per dire, faceva copertine come quella che segue, e già il fatto che parlasse della grande Bonzo Dog Doo Dah Band fa venire voglia di recuperarla…

Qui lo scan ad alta definizione della trascrizione dell’ultima puntata di Lascia o raddoppia con John Cage e Mike Bongiorno (jpeg 1,44 MB)

Altre informazioni (e altre fotografie) in questo post del blog John Cage Trust.

Comunque ogni volta che penso all’esibizione di Cage a Lascia o raddoppia mi viene in mente questa scena di Alberto Sordi al concerto di musica contemporanea:

Malinconia Bontempi

Svezia, 1937. “Musica fusa da impulsi elettrici può dirsi quella resa da questo originale organo che suona senza il soccorso di canne nè di mantici, direttamente attingendo i suoni da generatori elettrici. “

A molti di noi il suono dell’organo elettronico piace perché è seducente e malinconico. Ma c’è qualcosa di più malinconico del suono di un organo elettronico, ed è un organo elettronico abbandonato in mezzo al nulla.

Quando dico in mezzo al nulla intendo proprio in mezzo al nulla. Non c’era niente nel raggio di alcuni chilometri. Solo vespe, zanzare, serpenti e topi. Perché qualcuno l’ha portato in un posto così lontano e isolato? Potrebbe restare qua per sempre. E poi di chi è quella scrittura? Forse quest’organo è legato a ricordi orribili?

Questa è la pubblicità dell’organo Bontempi del 1977. Che fine avranno fatto questi bambini? Che fine avrà fatto il piccolo Sergio Minola di Milano, che non sapeva suonare finchè non gli hanno portato un organo Bontempi? Anche lui sarà stato buttato in mezzo al nulla più grigio, tra fango, piante di salicornia e nidi di vespe?

VEDI ANCHE: Malinconia Disney

Robert Crumb disegna il blues (e manda a fanculo tutto il resto)


Se a casa mia scoppiasse un incendio non avrei dubbi su quali cose mettere in salvo e in quale ordine: il portatile, l’hard-disk esterno, due o tre libri introvabili. Il gatto no perché chiunque conosca il gatto sa bene che, durante un incendio, non solo non ha nessun bisogno di  essere salvato, ma probabilmente sarebbe lui stesso il responsabile dell’incendio. Se poi avessi qualche secondo in più un’altra cosa che metterei in salvo è un libro di fumetti: Robert Crumb disegna il blues.

Dico subito che io non sono un fanatico del blues, anche se mi piacerebbe molto esserlo e non è escluso che in futuro, quando finalmente i miei capelli inizieranno a diradarsi e ingrigirsi, mi metterò a studiare per diventarlo. Ma anche con tutti i capelli al loro posto è impossibile resistere al fascino passatista di questo mondo lontano fatto di fruscii, vagabondi, voodoo, povertà, alcol, disperazione, musica bellissima.

Robert Crumb, cioè uno dei più grandi fumettisti di sempre, oltre che fanatico oltranzista della vecchia musica americana, blues, country, jazz e hillbilly, descrive alla perfezione questo mondo e questa passione. Lui è uno di quei collezionisti che conoscono a memoria ogni chitarra ogni banjo e ogni fruscio di rare e costose registrazioni anni 30 e odiano tutta – TUTTA – la musica moderna. Di conseguenza, essendo Robert Crumb un vecchio stronzo – lo dice lui, non è una cosa negativa – in questo volume non parla solo del suo amore per il blues e per la vecchia musica in generale, ma anche e soprattutto del suo ODIO per tutto il resto.

Alcune delle tavole più spassose sono proprio quelle dove il suo orgoglio passatista diventa anzianissimo e violento livore contro la musica moderna, contro le persone che ballano, contro la musica amplificata e in definitiva contro tutti i giovani (va specificato che si tratta di tavole disegnate negli anni 80 e immagino che quelli, per un fanatico dei vecchi tempi come lui, non devono essere stati anni facili). Alla facile critica “Ma anche tu da giovane ascoltavi il rock rumoroso e psichedelico che piaceva a noi giovani” (e infatti c’è anche una bellissima tavola su Purple Haze) Crumb risponde che sì, è vero, ma all’epoca mi facevo di LSD: ero rincoglionito, quindi non conta. E comunque andate a fanculo.

Nel volume – che io possiedo nell’edizione italiana I grandi libri di Comix del 1993, bella perché gigante – ci sono le storie degli eroi di quel piccolo-grande mondo antico dell’età dell’oro del blues, come Charley Patton e Jelly Roll Morton (a questi eroi, uomini e donne, Crumb aveva dedicato anche la serie di serigrafie Heroes of the Blues, e un altro volume con tanto di cd allegato) ma anche alcune vecchie canzoni con testi ingenui, a volte un po’ surreali, che Crumb traduce in immagini nella serie, molto divertente, “The old songs are the best songs”.

In più, per farvi capire la sincerità della sua passione, aggiungo che Crumb ha una sua band: R. Crumb & His Cheap Suit Serenaders, di cui, se siete curiosi, potete sentire diversi pezzi su Youtube: c’è addirittura un live dove canta Oh Susanna.

Perché tutto questo mi è venuto in mente oggi? E’ stata una casuale concatenazione di pensieri domenicali: ho visto un servizio in tv sui pericoli domestici – GLI INCENDI! – e ho scoperto che esiste un intero concerto di Skip James (e altri) su Youtube, quindi ho un po’ unito il tutto ed eccoci qua. Oltretutto ho scoperto che “Robert Crumb disegna il blues” è venduto a pochi, pochissimi euro… quindi. Non dico altro.

I fumetti di Crumb, in inglese, si possono comprare direttamente dal suo sito, altrimenti, se siete sfigati come me e ancora vi ostinate a leggere in italiano, si trovano un po’ ovunque nei soliti siti e suppongo anche nelle librerie.

Concludo il post con questa bella scena tratta dal film Ghost World dove mi pare sia ben rappresentata la capacità di questa musica proveniente da un mondo e da un tempo lontano di stregare e incantare chi l’ascolta. La protagonista, Thora Birch, ha comprato il disco per caso nel mercatino di un collezionista nerd e fanatico interpretato da Steve Buscemi. Sempre per caso mette su il disco e inizia a sentire sempre lo stesso pezzo in loop, l’incredibile Devil Got My Woman (1931) del sopraccitato Skip James. Il film è a sua volta tratto da un fumetto (di Daniel Clowes) e la regia è di Terry Zwigoff, regista anche del film biografico Crumb, dedicato indovinate a chi. Il cerchio si chiude, buon ascolto.