I pezzi più strani degli artisti più normali (più o meno)

Geniale playlist del solito Mr Fab con i pezzi più strani, bizzarri, d’avanguardia o comunque insoliti nella carriera di artisti noti. Il gioco è questo: se ascoltate i pezzi senza guardare il nome dell’artista, difficilmente riuscirete a capire di chi sono. L’idea è ottima (io ne avevo avuto una opposta, tempo fa: i pezzi più pop dei musicisti d’avanguardia, ma l’ho persa) e dunque consiglio il download immediato.

Per dire, l’avreste mai detto? E poi chi lo sapeva che i Police hanno fatto un pezzo così? (bellissimo il testo)

Musteri Hinna Föllnu Steina

Negli ultimi due mesi ho passato molte notti insonni. Insonnia del peggior tipo: quella che ti fa addormentare e dormire come un bambino fino alle tre o quattro del mattino e poi, esattamente come un bambino, ti svegli disperato e frignante, in preda al terrore. Vorresti urlare e farti abbracciare da mamma, ma mamma non c’è e se urli i vicini chiamano la polizia. Quindi non chiudi occhio fino all’alba, e nemmeno dopo. Finché, o ti alzi e ti avvii a una giornata da zombie dove l’unico scopo sarà gonfiare e sgonfiare i polmoni con una certa frequenza e tenere stabile la frequenze ritmica del battito cardiaco, oppure crolli esausto e pensi di morire. Ma non muori, perché un’ora dopo controlli l’orologio, sono le otto del mattino e non sei morto. Le otto, non a caso il numero che se rovesci rappresenta l’infinito, l’infinito cacamento di cazzo di vivere, come direbbe il faraone. E’ più o meno come in quei film dove viaggi nel tempo e a te sembrano passati solo venti minuti e invece per gli altri sono passati vent’anni, però al contrario e con molte sigarette in più. Il resto del mondo si sta svegliando, mentre tu sei di ritorno dal Vietnam e il tuo sguardo è cambiato. Gli altri non possono capire, loro sono andati a letto, dormire, sognare, forse scopare: poi si sono alzati ed era un’altra giornata, si amavano, lavoravano, giocavano e vivevano e tutto era bello perché se Mary è accanto a te ti senti un re. Ma tu sei solo e fermo all’interminabile giornata di prima, in un’oscura bolla spazio-temporale, lontano da tutto e schiavo dell’entropia perché Mary non c’è, è andata via, Mary non è più cosa mia. E in molte di queste notti, a dire la verità in quasi tutte, quando mi svegliavo mettevo subito le cuffie e accendevo la musica per evitare di sentire il Terribile Silenzio che a quell’ora, tre o quattro del mattino, è l’incubo peggiore che l’essere umano possa immaginare da sveglio. Il disco era sempre lo stesso. A volte seguivo l’ordine dei pezzi, a volte attivavo la modalità casuale, ma credo di aver sentito il disco Musteri Hinna Föllnu Steina più di quanto abbiano fatto i loro stessi autori. La citazione è ormai troppo sputtanata, lo so, però era veramente un dolce naufragare in questo mare, un gorgo oscuro di droni, echi di treni in mezzo alla nebbia, pulviscolo atmosferico, pianoforti fantasma e mostri della laguna grigia dallo sguardo gentile. In breve in questo disco è diventato la colonna sonora del mio cervello, quell’accogliente bolla spazio-temporale dove accucciarmi e resistere in attesa dell’alba. Ora, io non so come renda questo disco in condizioni normali. Non sto dicendo che si possa ascoltare solo alle tre o alle quattro del mattino come arma contro il terrore notturno. Non dico questo. Ma senza dubbio richiede un certo isolamento temporaneo dal mondo degli uomini. Notte, eventualmente. Cuffie, senza dubbio. E fate attenzione alla testa, nel tempio delle pietre che cadono.

(immagine da Sardegna Abbandonata)

Bignami per la Liberazione della Musica Elettronica Popolare Preistorica

Credo di avere una predilezione particolare per i primi sconosciuti musicisti elettronici “pop”.

Contrariamente agli innovatori della musica d’avanguardia, che ne aumentavano la complessità chiudendosi in una sperimentazione troppo intellettuale e poco intuitiva, loro han provato piuttosto a “giocare” con le nuove possibiltà del nastro magnetico e dei primi enormi sintetizzatori, quasi del tutto isolati (per fortuna esistevano i laboratori radiotelevisivi) e contro tutto e tutti: le tecnologie nei ’50 e ’60 erano ancora primitive e sia il pubblico colto che la cultura di massa non erano pronti a farsi intrattenere da sonorità che non erano né seriose né familiari.

Se le avanguardie colte, pur avendo ispirato generi come il glitch o l’industrial, non sono forse riuscite di per sé a raccontare l’umanità del futuro, questi personaggi non solo l’hanno prevista, ma sembravano essi stessi arrivati dal futuro, o perlomeno da una dimensione parallela.

Ma prima mettetevi composti, cominciamo con una piccola cronostoria (se cercate qualcosa in più sul lato tecnico, provate qui).

Alcuni dei primi strumenti elettronici furono: il gigantesco Thelarmonium (che ispirò anche l’organo Hammond del 1935), costruito nel 1897 o giù di lì, e di cui purtroppo non ci sono registrazioni dell’epoca, il Theremin (1919), l’Onde Martenot (1928) e il Trautonium (1929), ma non riuscirono più di tanto a rivoluzionare il mondo della musica. Il curiosissimo ma un po’ arido Theremin e l’Onde Martenot furono comunque abbastanza considerati da Edgar Varese durante gli anni ’30.

In tanti avranno sentito parlare del futurista Luigi Russolo, in realtà precursore della musica noise. I suoi Intonarumori (1913) erano infatti apparecchi meccanici che generavano rumori acustici (non armonici); si trattava insomma sempre di far vibrare dei materiali come corde o lastre metalliche, etc.

John Cage nel 1939 inserì il suono di due grammofoni amplificati in una composizione con strumenti più tradizionali, il risultato fu Imaginary Landscape #1.

Pare però che il primo a conservare fino ai giorni nostri le proprie manipolazioni di musica interamente registrata non fu Pierre Schaeffer, ma un egiziano (i lettori accaniti di Guylum Bardot ne saranno soddisfatti!).

Halim El-Dabh compose Wire Recorder Piece (nel 1944, a 23 anni), modificando grazie a un registratore a filo preso in prestito da una Radio del Cairo (che al posto del nastro magnetico aveva ancora appunto un filo d’acciaio) i canti di un’antica cerimonia egiziana Zar, che pare servisse a curare malattie mentali. Niente male.

Il primo prototipo di mangianastri è stato il britannico Blattnerphone (1929 o 1930), seguito dal magnetofono tedesco della AEG (1935).

La musica concreta di Pierre Schaeffer nacque ufficialmente nel 1948 (erano comunque almeno 5 anni che ci rimuginava), ma nel Club d’Essai della Radiodiffusion-Télévision Française furono utilizzati generalmente grammofoni, filtri, e poi microfoni per registrare il tutto. Si servirono del nastro magnetico solo qualche anno dopo.
Karlheinz Stockhausen compose il suo primo pezzo di musica elettroacustica, Etude(1952), proprio lì, con il Phonogène, uno strumento costruito da Schaeffer (nella foto) che funzionava coi nastri ma aveva persino una tastiera di un’ottava. Comunque pare che il pezzo gli facesse schifo.

L’anno prima, sempre alla RTF, Pierre Henry aveva inciso Le microphone bien temperé (sempre per nastro), forse la composizione più completa nel suo genere, almeno di questi esordi.

In America invece, sempre nel 1952, al MoMA di New York, Otto Luening e Vladimir Ussachevsky presentavano il primo concerto di musica per nastro magnetico. In Low Speed, ad esempio, c’è un flauto messo in feedback e non so che altro, mi ha fatto venire in mente un po’ i Throbbing Gristle.

A Colonia anche Herbert Eimert e Robert Beyer sperimentavano sul nastro magnetico negli studi della Nordwestdeutscher Rundfunk in cui fu poi di casa anche Stockhausen. Il loro Klangstudies II (sempre del 1952), pur non essendo ancora melodico, ha un suono più pulito e sintetico, merito del Melochord, strumento a tastiera costruito nel 1947 da Harald Bode, e di un oscillatore che generava onde sinusoidali.

Ma tutto ciò di cui si è parlato finora è forse più accostabile alla sperimentazione tecnica – e quindi alla fascinazione intellettuale – che all’ascolto vero e proprio.
Si può insomma essere “profondi” anche nell’immediatezza: se l’immaginazione non ha un appiglio un poco più intuitivo è difficile arrivare a provare una qualche impressione sentimentale.

Proviamo dunque a concentrarci sugli albori della melodia nella musica elettronica.

A rigor di logica le prime melodie elettroniche – perlomeno quelle incise da qualche parte – non possono che essere nate grazie ai jingles delle reti televisive. Ma a volerci soffermare su quelli che sono i primi brani completi del genere, che superino insomma 1 o 2 minuti, a spuntare è sempre lui: Raymond Scott.

Il primo esempio della musica che nei ’60 lo farà grande (ma per pochi), è The Rhythm Modulator, pezzo ancora un po’ scarno, composto tra il 1955 e il 1957, nei suoi studi di Manhattan, dove tra le varie cose inventò il Clavivox, grazie anche alla conoscenza di Robert Moog (il cui famosissimo synth vedrà luce nel 1964, ma non distraiamoci). Un altro brano che trovate nella raccolta Manhattan Research Inc. è Lightworks, composto tra il 1960 e il 1963, forse uno dei più “moderni dentro”.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/230-lightworks-instrumental.mp3]
Raymond Scott – Lightworks

Meanwhile, in Olanda, all’interno dei Laboratori della Philips si faceva la storia, grazie a Tom Dissevelt, Dick Raaymakers (nome in codice Kid Baltan) ed Henk Badings, quest’ultimo guarda caso nato a Java quando era colonia olandese, sempre per la gioia dei lettori più stramboidi (sarà anche per questo che Dissevelt ha scritto il primo pezzo elettronico ispirato al gamelan nel 1963?). In questo video potete vedere i primi due che tagliano e incollano con lo scotch i nastri in cui venivano registrate le forme d’onda generate da macchinari poco comprensibili.

Popular Electronics: Early Dutch electronic music from Philips Research Laboratories, 1956-1963 è un box di 4 cd uscito nel 2004 per l’etichetta olandese Basta (ma speriamo invece continui), e raccoglie i brani di cui sto per parlare e altro ancora.
Badings ha musicato un balletto teatrale messo in scena all’Holland Festival nel 1956, Cain and Abel. Lo stile è ancora caotico e a volte frammentario, ma non ostico come certa elettroacustica o acusmatica (ricordiamo che per acusmatici si intendono i suoni derivati sempre da registrazioni concrete ma diventati totalmente avulsi e astratti); l’introduzione e il primo episodio hanno una “piacevole” immediatezza d’ascolto nella loro tensione da psichedelia horror.

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Henk Badings – Cain and Abel, first episode

Il primo 33 giri di musica elettronica pop (anche se i brani con un vero motivetto pop sono la metà) ha avuto due versioni leggermente diverse, non solo per i nomi dei titoli: la Philips ha fatto uscire The Fascinating World Of Electronic Music a nome Tom Dissevelt & Kid Baltan nel 1959, diventato nel 1962 Elektrosonics: Electronic Music; se vi interessa tra le varie ristampe pare ne sia uscita un’altra quest’anno in CD per la Omni. I due hanno curato comunque brani diversi: il brano più antico (uscito come 45 giri nel 1957) è Song of The Second Moon di Baltan, ma a spiccare è Orbit Aurora, creata da Dissevelt nel 1958 col nome originario di Syncopation. Sembra di stare all’interno di una fiaba futuristica, o di qualche pianeta parallelo.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/06-orbit-aurora.mp3]
Tom Dissevelt – Orbit Aurora

L’aneddoto più bello riguarda comunque questo tizio qui sopra, Raaymakers, che era solito condurre un’esistenza riparata, dedicandosi alle sue apparecchiature; nel 1965 il suo agente lo chiamò per proporgli di fare la colonna sonora di un film di fantascienza di un giovane regista… il cui nome non gli disse nulla, e poi era stanco, e non aveva tempo… peccato, Kubrick ci rimase male.
La loro musica è rimasta così a prendere polvere, anche se pure artisti come David Bowie han dichiarato di esserne rimasti folgorati.

Due cose però sono mancate a queste melodie: ritmo e canto, e qualcuno qui rimpiangerà i Kraftwerk.
I tedeschi, infatti, se dal 1970 si erano ispirati alle musiche elettroniche colte mischiandole al rock (Kluster e Tangerine Dream facevano già a meno del rock, ma di certo non erano pop), poi via via si erano affrancati da elementi acustici o soltanto elettrici, arrivando prima con Autobahn (1974) e poi maggiormente con Radioactivity (1975), a unire alle melodie elettroniche ritmi sintetici e canto.

Di canzoni con musica elettronica ce n’erano già state molte: ci avevano pensato per primi i newyorkesi Silver Apples (1968) e Fred Weinberg (sempre nel 1968, con la beatlesiana Animosity), e gli White Noise (1969) di Delia Derbyshire, autrice di musiche ed effetti sonori al Radiophonic Workshop della BBC dal 1962; ma i suoni elettronici non coprivano tutte le componenti della loro psichedelia.

Una menzione particolare voglio darla a Cecil Leuter, il cui Pop Electronique n°2 (1969), pur non avendo cantato nè drum machine, sembra una versione per Moog di Fatboy Slim, o qualcosa del genere.

In realtà dei primi pionieri in fatto di canzoni interamente elettroniche, anche se con ritmi un po’ grezzi, Guylum Bardot ha già parlato altrove, con Mort Garson e il suo Wozard of Iz (1969) e soprattutto il Bruce Haack di Electric Lucifer (1970). Il disco di Garson i suoi anni li sente un po’ troppo, mentre Haack, anche se sempre in stile psichedelico, si difende molto meglio (c’è persino il vocoder; ma sentite la strumentale Supernova, pare uscita ieri).

Concludiamo allora con un personaggio ancor più strampalato, pioniere per caso di un pop elettronico quasi senza tempo.

Hans Edler, adesso musicista mainstream in patria (i suoi altri video su youtube fanno 30.000 visualizzazioni), prese nel 1969 (a 23 anni) delle lezioni all’Elektron Musik Studion di Stoccolma, centro di sperimentazione attivo dal 1960, e lì, su quei grossi sintetizzatori incastonati nel mogano, ebbe non si sa come la possibilità di registrarci un disco due anni dopo (speriamo non grazie a comportamenti lascivi, il fatto è che quella copertina ci inquieta un po’).


Elektron Kukéso (500 visualizzazioni) è un disco allo stesso tempo naif e sorprendente: nelle quattro canzoni sembra di sentire la voce di un Brain Eno sbronzo. Il resto sono più che altro nenie liturgiche (buone per un film di Bergman).

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2012/10/07-hans-edler-det.mp3]
Hans Edler – säg vad Är det

Durante le canzoni vere e proprie la musica è un misto di tastierine bambinesche, accordi tonali, e di frastuoni sintetici (un intruglio di avanguardia e pop da non credere); mentre sullo sfondo delle cantilene ci sono soltanto i rumorismi e i blip blop da computer impazzito. L’EMS di Stoccolma era rinomato infatti per gli studi sulla composizione programmata al computer.

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2012/10/02-hans-edler-langt-bort.mp3]
Hans Edler – långt bort

Per chiudere il disco si permette pure uno strumentale, sempre funebre e pieno di Bzzzz, Shhhhh e Ktttrrr. Di ritmiche comunque neanche l’ombra, ma possiamo perdonarglielo, era giusto lasciare qualcosa da fare ai Kraftwerk.

Hermann Kopp: Haunting sounds for extreme visions

Se non vi ricordate Nekromantik forse è meglio per voi, e lo dico da appassionato di cinema horror. Film artigianale, eccessivo, dal fascino maledetto. Rivederlo oggi è difficile come ieri – non solo per le scene disturbanti: è anche un po’ noioso – ma la cosa migliore è sempre stata la colonna sonora. E quella era di Hermann Kopp, violinista e sperimentatore elettronico che riassume bene la sua arte con l’immagine che vedete qua sopra: è un po’ il suo biglietto da visita, e infatti viene dalla prima pagina del suo sito.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/02-poison.mp3]

Hermann Kopp – Poison

Elettronica, sintetizzatori, ma soprattutto il violino, dal suono a volte delicato, a volte angosciante e ossessivo.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/03-supper.mp3]

Hermann Kopp – Supper

Questi due pezzi vengono dalla raccolta Necronology, che contiene le musiche della colonna sonora di Nekromantik, e riassumono bene l’atmosfera malata del film. Il mio pezzo preferito di Hermann Kopp però viene da un apparentemente trascurabile EP, Cerveau D’Enfant del 2010. Per me, sublime.

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Hermann Kopp – Oedipe-Enfant

Ma Hermann Kopp sarebbe rimasto semplicemente “quello delle musiche di Nekromantik”, se non fosse che nel 2008 ha fatto un cupo e bellissimo disco, Under a Demon’s Mask. Qualcuno ha avuto l’idea di associare uno dei pezzi più belli del disco con le immagini del Settimo Sigillo. E che dire, funziona a meraviglia. Che la morte sia con voi.

(E a proposito di vecchi film abbinati a nuovi dischi: mi segnalano che la nostra idea di associare Gnaw Their Tongues a L’Inferno del 1911 ha ispirato anche qualcun altro…)

Aborigeni e marziani

Dopo le dritte su Francis Bebey provo a molestare le vostre orecchie con uno spazio dedicato ai dischi dimenticati forse anche da chi li ha fatti. Chiediamocene il perché tutti insieme.

The 13th Tribe – Ping Pong Anthropology (1992)

Nonostante lo humour del titolo e della copertina, i componenti di questo progetto berlinese hanno l’aria di quelli che un po’ ci credono, dato che tengono a sottolineare nelle note del disco che non troverete traccia di elettronica o sampling. E non c’è nemmeno il didgeridoo, anche se sembrerebbe. Invece quei suoni lì provengono da flauti e clarinetti di plexiglass e PVC che Werner Durand si è costruito da sé dimenticandosi (di proposito) di farci dei fori, e che suona in un continuo botta e risposta assieme al norvegese Erik Balke (i due manco a dirlo sono studiosi, di musica indiana e iraniana il primo, di africana e balinese il secondo).
Da non cultore degli strumenti a fiato ringrazio anche la presenza della brasiliana Silvia Ocougne, che con la sua chitarra elettrica pizzicata e suonata col martelletto mette in mezzo un po’ di colpi ad effetto. Completano il campo da gioco varie percussioni, tra cui ossa e lattine.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/the-13th-tribe-03-khazar.mp3]
The 13th Tribe – Khazar

Organizzassero delle olimpiadi aborigene sarebbe il giusto background per infondere un po’ di sacro agonismo durante le competizioni di cannibalismo, circoncisione, lancio del boomerang e tiro dell’anello al naso. C’è anche la cerimonia (funebre?) di chiusura.

Un simpaticone su YouTube ha pensato bene di caricare un loro brano sovrapponendo alle racchette della cover una pallina in movimento (a dire il vero pare più una luna in miniatura). Se la osservate per più di 30 secondi finite sotto ipnosi, fate attenzione bambini.

Rimanendo nello stesso ambito segnalo un altro gruppo, stavolta formato nella San Francisco della New Wave, che ha provato ad inventarsi un’immaginaria world music, in questo caso ibridando però gamelan e musica elettronica.

Gli Other Music suonano scale microtonali che seguono la just intonation; cioè, provando a spiegarlo a un cane come me, se ogni metallofono che fa parte di un’orchestra gamelan è già di suo uno strumento microtonale, perché non ha ottave da 12 intervalli come gli strumenti più comuni, quelli che si son costruiti loro nello specifico ne hanno 14 diseguali (cioé non della stessa lunghezza) per ottava, e ognuna delle 14 note ha una frequenza che risulta semplicemente da frazioni di numeri interi, un po’ come voleva il buon Pitagora (che ora non posso evitare di immaginare con la faccia di Terry Riley). Combinandoli a un synth (il Prophet V) e ad altra roba tra cui sax, corno, violoncello, chitarra elettrica, e, nella traccia qui sotto, a un hammered dulcimer (cioè il salterio, chiamato in oriente santur), il risultato unico, a volte marziano più che indonesiano, a volte un po’ jazzy (l’incipit mi ricorda i Residents), è stato Incidents Out of Context (1983).

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/05-The-Spirit-Is-Willing.mp3]
Other Music – The Spirit Is Willing

Francis Bebey

Artista, musicista e scrittore del Camerun, abbastanza noto nel suo paese e in Francia, Francis Bebey è stato autore di un curioso etno-jazz elettronico. Negli anni 70 si è procurato un sintetizzatore e una drum machine e nei decenni successivi ha rilasciato una ventina di dischi dai suoni magici e insoliti. Ad esempio in questo bellissimo Akwaaba del 1985 aggiunge il basso elettrico a strumenti più tradizionali, come la Sanza (magari l’avete già sentita nominare come Mbira). Il risultato è magnifico e bizzarro. In “Bissau” passa senza soluzione di continuità dalla scanzonatezza alla Oronzo Canà che va in Brasile a comprare Aristoteles al dramma abissale della voce che alla fine del ritornello si incanta in un inaspettato urlo quasi harsh noise:

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/02.-Bissau.mp3]
Francis Bebey – Bissau


Il disco è stato ristampato dalla tedesca Trikont con un altro titolo, African Moonlight. Molto consigliati anche altri pezzi dalla bellezza indescrivibile come Sassandra e Tumu Pakara.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/04.-Tumu-Pakara.mp3]
Francis Bebey – Tumu Pakara

Recentemente poi è uscita questa raccolta “African Electronic Music 1975-1982”, ascoltabile dal sito della Bord Bad Records.

Francis Bebey (1929/2001)

[con questo post diamo il benvenuto all’amico mongodrone, che condivide con noi la passione per esotismi, elettronica esoterica e oscurità di vario genere. finegarten]

L'ennesimo universo sonoro in formato audio digitale compresso da attraversare con cuffie e solitudine


Non ho mai considerato la musica come un’occasione di socializzazione. Ai concerti mi dà perfino fastidio vedere altre persone che ascoltano la mia stessa musica. E allora perché ne scrivi in un sito internet e lasci tracce ovunque nei social network? Perché sono un umano, dopotutto, e vivo di paradossi e contraddizioni, ma anche perché quello di internet è un pubblico invisibile e silenzioso. Bene. Incipit che probabilmente taglierò solo per parlare dell’esperienza del mese, cioè il nuovo disco degli Alog. Dico nuovo perché ho letto che ne hanno fatto altri, ma fino a una settimana fa non sapevo nemmeno che esistessero. Poi ho sentito Bшmlo Brenn Om Natta e ho capito che c’eravamo: il primo disco interessante del 2012 era arrivato, ed era un disco del 2011.

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2012/02/10-Bmlo-Brenn-Om-Natta.mp3|titles=10 – Bшmlo Brenn Om Natta]
Alog – Bшmlo Brenn Om Natta

Non so cosa vuol dire in norvegese Bшmlo Brenn Om Natta, ho provato a tradurlo con Google Translate ma non ci sono riuscito. Ho capito solo che “brenn” vuol dire brucia o bruciare, ma poco mi importa. Anzi: se un giorno gli alieni arrivassero davvero per portarmi via, ci resterei davvero male se iniziassero a parlare con l’accento romano, se capite cosa voglio dire. Voglio che la mia musica suoni più o meno come questo pezzo. Come il caldo abbraccio dell’autismo.

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Alog – Orgosolo I

L'aggettivo afro davanti al trattino


DRC Music – Kinshasa One Two (2011)
DRC, ovvero Democratic Republic of Congo: Damon Albarn e altri produttori europei con musicisti congolesi di generi diversi in 5 giorni di registrazioni. Poteva essere una delusione e invece no: è bello e cresce con gli ascolti. C’è un po’ di tutto. Alcuni pezzi potrebbero essere hit dei Gorillaz, altri sono come ti immagini la dance africana, tra Konono n.1 e Shangan Electro. Ci sono anche cose più oscure e musica tradizionale. Nei momenti più afro-electro-pop mi ha ricordato anche quella meraviglia proveniente un po’ da Londra e un po’ dal Mali di Warm Heart of Africa dei Very Best. I ricavati delle vendite vanno in beneficenza (altrimenti vanno a mediafire). Damon Albarn ancora una volta vincitore.

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DRC Music – Ah Congo

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2011/11/06-Lourds.mp3|titles=06 Lourds]
DRC Music – Lourds


Cut Hands – Afro Noise (2011)
Con un approccio totalmente diverso, Afro Noise è la via africana di William Bennett dei Whitehouse. Il titolo dell’album giustifica la presenza in questo post, anche se proprio il titolo può facilmente portare a una delusione. Più che di noise in senso stretto si tratta di una specie di versione industrial della musica tribale sub-sahariana. Violenza percussiva, suoni puliti e spigolosi, con tappeti di drone ad aggiungere oscurità, più qualche pezzo più sporco già pubblicato come Whitehouse. Affascinante o irritante, dipende. Io l’ho sentito in treno e mi è piaciuto, ma si sa che i rumori del treno migliorano tutto.

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2011/11/11-Ezili-Freda.mp3|titles=11 – Ezili Freda]
Cut Hands – Ezili Freda


Various Artists – Extreme Music From Africa (1997)
Per chi poi volesse “vero” afro-noise, segnalo questa compilation del 1997, sempre a opera di Bennett, dal titolo Extreme music from Africa, dove sono riuniti vari artisti sperimentali provenienti da Marocco, Sud Africa, Zimbabwe e Uganda (oppure ha fatto tutto lui firmandosi con nomi diversi, non lo so, ho il dubbio).

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2011/11/03-Long-pig.mp3|titles=03 Long pig]
Jonathan Azande – Long Pig

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The Mbuti Singers – Massacre Rite


Andy Stott – Passed Me By (2011)
Chiudo con l’oscura e conturbante techno-dub di Andy Stott. La copertina dice tutto. Qui si va veramente giù, in profondità. Si affonda in abissi neri, disperati e allo stesso tempo eccitati, come con le droghe più pesanti. Dice un commentatore su Youtube: Damn this is deep. Uno dei dischi dell’anno per Guylum Bardot, si consigliano volume alto e cuffie di qualità.

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2011/11/05-Dark-Details.mp3|titles=05 – Dark Details]
Andy Stott – Dark Details