Nuvolosità variabile a tratti intensa: come scoppio di cannone la mia testa fa bum bum


Periodo di prime piogge e di conseguenti abbondanti e copiosi ascolti musicali, e infatti ci sarebbero almeno una dozzina di segnalazioni da fare, ma c’è qualcosa di inesprimibile che al momento ha la priorità assoluta. Non so cos’è, ma credo sia ben riassunta da questo pezzo di Rossini tratto dall’Italiana in Algeri. Vedi alla voce biotropia e delirio contrappuntistico onomatopeico bum bum.

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2010/10/19.mp3|titles=19]
Gioachino Rossini – Nella testa ho un campanello

Raime EP

già accennato a proposito dell’esplosione del dubstep e delle sue possibili derive, e adesso che il disco mi è finalmente arrivato, qualcosa va detto. Il self-titled dei Raime ha sollevato una breve ma intensa botta d’hype tra i blog di musica più influenti (Simon Reynolds, tra i primi, si dimostrò particolarmente interessato), e, cosa rara nella storia delle botte d’hype, questa volta un motivo c’è. In ambito dubstep, o almeno da quando il genere è assurto allo stato di next (?) big thing e come tale s’è consolidato, questo EP infatti è importante come Burial, se non addirittura di più. Segna la nascita di un dubstep che non è più solo veicolo emozionale, ma dotato dal principio di un preciso bagaglio emotivo. Virate in questa direzione erano già presenti nei lavori del già citato Burial, e di artisti come Distance e Shackleton, che hanno apportato al genere una maggiore carica soggettiva, senza mai distanziarsi troppo dai suoni, dall'”ideologia” e dall’eredità dubstep. I Raime, invece, hanno poco a che vedere con gli stereo da macchina e dalla drum ‘n’ bass che hanno influenzato Burial, così come col DMZ e col dancefloor in generale. La struttura e i tempi rimangono quelli; tutto il resto, quello che identifica un artista, sembra il figlio silenzioso e inquietante dell’ambient di Boyd Rice, dei ritmi solenni e romanticheggianti dei Death in June, dell’atmosfera oscura e angosciata dei Dead Can Dance e dei meandri oscuri della prima 4AD (è comparso anche il nome di Prurient nel mixtape più recente). Blackest Ever Black, l’etichetta che ha rilasciato l’EP, è molto chiara a proposito della sua filosofia: qui si parla di sensucht, di art, as opposed to engineering, di nichilismo, di pragmatismo, di romanticismo (e ci azzeccano pure la citazione throbbinggristlianoboydriceana alla fine, giusto perché non s’era capito) — non proprio argomenti da nightclub. Insomma, un’intenzione molto più seriosa dei fantasmi metropolitani di Burial e dei demoni di Distance, sorretta da uno scheletro dance.

Il risultato, quindi? Il risultato è dannatamente bello. Dionisiaco e apocalittico come solo il noise e l’industrial erano mai riusciti, ma meno corrosivo e più inquietante. Coinvolgimento del dubstep e straniamento della musica per adolescenti introversi. I suoni sono percussioni marziali, con qualche aggiunta di sawing e voci evocative sparse. Tracce (menzione d’onore al lato B) lunghe ed evanescenti che si snodano come pezzi post-punk ma all’osso restano dubstep. E’ un EP da avere sia per il suo valore ‘storico’, sia perché, cristo, oscuro + evocativo = wow. Due le controindicazioni: speriamo che i Raime non generino una schiera di simil- e imitatori nella maggior parte dei casi patetici (vedi: quello che è successo coi Salem), e speriamo che non si piglino troppo sul serio. Non vorranno mica finire come Prurient.

Raime – We Must Hunt Under the Wreckage of Many Systems

Raime – We Must Hunt Under The Wreckage Of Many Systems