Musica dal mondo (vol.1)

Straordinari blog che raccolgono musica dal mondo, lo sappiamo, ne esistono moltissimi oramai (e meno male). Proprio vagando in alcuni di questi ho scovato alcune chicche; e la voglia di condivisione era tanta che non ho ancora effettuato ricerche specifiche per ogni artista: di molti non conosco l’epoca, lo stile e finanche il paese! So solo che alcuni di questi schiudono mondi ancora per me inesplorati e tanto mi basta per godere. Ve li propongo:

http://youtu.be/4N4OLtDqECo

chiudo con un brano già proposto, ma eccezionale, che merita di essere presente:

L'arte di Shuji Terayama

Shuji+Terayama

(Shuji Terayama)

Tutto cominciò col Krautrocksampler (l’ormai mitico libro di Cope) di cui rimarrò sempre un fedele credente. Qualche settimana fa ne ho risfogliato avidamente le pagine e in un deliquio di ricordi da sospiri nella notte ho riascoltato molta di quella musica. Subito dopo non potevo non ricominciare anche col Japrocksampler suo successore. Chiariamolo subito: il rock giapponese non è neppure lontanamente paragonabile a quello tedesco per portata ne per fascinazione, anche se, come in tutte le arti, scavando per bene alcune perle sono rintracciabili anche lì nel rock seventies del paese del sol levante. Sostanzialmente si può schematizzare il tutto dicendo che molti, moltissimi, quasi tutti i gruppi giapponesi dell’epoca si rifacevano (se non copiavano) lo stile dei gruppi anglosassoni/occidentali, a volte proprio pedissequamente. Quelli che più sono riusciti ad essere originali hanno ovviamente creato qualcosa di più interessante da andare a scovare: tipo i nostri adorati (e davvero parliamo di amore per quanto mi riguarda) Les Rallizes Dénudés (che pure si rifacevano ai primi Velvet), Magical Power Mako (molto Faust e molto Battiato primissima maniera) il jazz incontrollato di Masahiko Sato, i Brast Burn/Karuna Khyal, i Taj Mahal Travellers e il maestro J.A. Caesar (o J.A. Seazer).

J.A. Caesar

(J.A. Caesar e Tenjo Saijki)

Quest’ultimo era compositore di tutte le musiche degli spettacoli teatrali del gruppo Tenjo Saijki che ruotava attorno alla figura del regista/poeta/scrittore Shuji Terayama (e si avvaleva anche della magnifica arte grafica di Tadanori Yokoo). Cope propone l’ascolto di diversi dischi di J.A. Caesar, anche se, a parere di chi scrive, sono davvero poche le emozioni ricavabili dall’ascolto di queste opere dato che esse sono di solito un potpourri di prestiti dal rock occidentale (anche protometal), folk giapponese e musica “di sottofondo”, il tutto però sovrastato costantemente dai dialoghi o dalle urla di cori femminili. Una eccezione è il bel esperimento di Jinriki Hikouki No Tame No Enzetsu Souan dall’album Kokkyou Junreika, dove una voce femminile elenca in maniera fredda tutti gli stati del mondo mentre un’altra maschile salmodia qualcosa in giapponese.

07 – jinriki hikouki no tame no enzetsu souan

Due anni prima di quest’album (nel 1971) Caesar è stato probabilmente (lo stesso Cope non ha dati per accertarlo, ma sembra altamente probabile) coinvolto nella realizzazione della colonna sonora attribuita ai Tokyo Kid Brothers (costola dei Tenjo Saijki emigrata negli states) di Throw Away The Books, Let’s Go Into The Streets, di cui vi propongo questo brano che mi colpì fin dal primo ascolto:

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1970-Nen 8-Gatsu

Per il resto del disco stessa storia degli album di Caesar anche se qui, essendo il tutto più rock-oriented, la fruibilità aumenta. Tutt’altra storia se questa musica la si gode prendendo visione del film di Terayama, un vero capolavoro d’arte sperimentale del quale consiglio caldamente la visione, possibile sul tubo: Parte 1Parte 2.

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Infine segnalo un cortometraggio del maestro Terayama:

titolo usato dagli Stereolab per un loro disco, ricordate?

The Doors of Perception

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Le porte della percezione Huxley le schiuse con la mescalina, ma un’anima allenata può farlo anche attraverso la trascendenza indotta dall’ascolto di determinata musica. Ciò avviene con la musica (quasi sempre denominata ambient) di alcuni artisti, quali i due di cui vi voglio brevemente parlare: Steve Roach, uno dei maestri indiscussi di quest’arte immaginifica e Dirk Serries, ovvero Vidna Obamana, belga autore di innumerevoli opere di valore in questo settore, come Revealed By Composed Nature. Ho scoperto che i due, nel lontano 1995, collaborarono alla genesi di una trancemusic (in doppio disco) che univa l’ambient più meditativa e trascendentale sia ad un etnicismo da rituale che ad una kosmichemusic da perdita dei sensi. E la collaborazione tra queste due anime destinate ad incontrarsi continuerà con altri album di (quasi) uguale spessore.

Non potete far altro che farvi tra(n)sportare.

Radio Xhol

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Gli Xhol sono un gruppo germanico di fine anni ’60/inizio ’70. Nati come Soul Caravan per poi diventare Xhol Caravan e infine perdere anche la seconda parola per una disputa con il famoso gruppo di Canterbury, si distinsero come uno dei primi collettivi di krautrock, ma non solo, a ben vedere. La prima, programmatica, scelta della parola Soul ci fa già intuire che la loro era una commistione che andava un po’ oltre i confini del rock psichedelico, che comunque sottende tutti i brani, sopratutto i più dilatati come Rise Up High sull’album Electrip del ’69. Una considerevole dose di soul/r’n’b quindi arricchisce molte loro composizioni, in più un pizzico di prog-jazz (tipo quello dei quasi omonimi canterburiani ma anche sopratutto dei Soft Machine) e il loro gioco è fatto!

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Ma non ci dimentichiamo cosa la Germania era per il rock in quegli anni, un ribollire incessante di novità e sperimentazioni e allora i nostri, nel ’70, decidono di destrutturare, così un po’ a casaccio; ne viene fuori (con due anni di ritardo però perché il gruppo si sfaldava e non trovava chi lo pubblicasse) un album strambo “Motherfuckers GMBH & Co. KG“, che se non erro anche Julian Cope suggeriva nella sua bibbia sul Kraut. E la destrutturazione comincia proprio da loro stessi, auto-campionati e mash-uppati:

L'ultima partita di Miles

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Immaginatevi la scena: siamo al tavolo verde, 1° febbraio 1975, si gioca la finale mondiale di bridge. A sfidarsi, per l’ennesima volta, Stati Uniti e Italia, sullo sfondo l’isola di Bermuda. Nell’ultima leggendaria mano Belladonna e Garozzo realizzano un Grande Slam a Fiori contro un Piccolo Slam Senza Atout messo a segno dagli americani. L’Italia si riconferma campione mondiale con la squadra Blue Team, chiudendo proprio con questa vittoria un ventennio di dominio quasi incontrastato.

Nello stesso giorno, a molte miglia e fusi orari di distanza, e precisamente all’Osaka Festival Hall, un altro grande campione del ventennio precedente sta per giocarsi quella che per un bel po’ di tempo sarà la sua ultima carta; sto parlando del re del jazz: Mr. Miles Davis.

Miles+Davis

La squadra davisiana non aveva certo nulla da invidiare al Blue Team in quanto a maestria, sangue freddo e abnegazione; c’erano, oltre a Mr. D alla tromba elettrica e all’organo, Sonny Fortune al flauto e al sax soprano, Pete Cosey alla chitarra elettrica e al sintetizzatore, Reggie Lucas altra chitarra elettrica, Michael Henderson grandioso basso elettrico, Al Foster alla batteria, il fantastico Mtume alle conga e percussioni varie.

E chisà se Mr. D disse alla sua squadra: “ok ragazzi, facciamoci quest’ultima giornata d’orgia sonica e poi ci fermiamo per 5-6 anni; vi voglio più cazzuti del solito, facciamo vedere a sti musi gialli che figli di puttana siamo!”; ma, molto più probabilmente, Miles non ha detto un cazzo a nessuno della sua intenzione di fermarsi, di prendere tempo e di capire dove ancora dirigere la sua Musica, avrà come al solito messo sotto torchio i suoi uomini col suo incommensurabile carisma e genio, chiedendo un’unica cosa: “dobbiamo mischiare tutto quello fatto finora e dobbiamo andare oltre!”. Roba da poco insomma.

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Teniamoci ai fatti: due esibizioni, una pomeridiana e una serale; la decisione presa è suonare quasi tutta roba nuova in lunghissime improvvisazioni mantriche e corroboranti, sudatissime suite hardfusionfunkyjazz. Roba che avrebbe dovuto ipnotizzare le masse nelle intenzioni di Mr. D e invece, ovviamente, non lo fece. Ne uscirono due album doppi! Agharta registrato il pomeriggio e Pangaea la sera, che poca notizia fecero all’epoca, eppure erano qualcosa di unico: immaginatevi giocare insieme allo stesso tavolo Sun Ra, James Brown e Jimi Hendrix e ognuno tirar fuori il proprio Grande Slam a Fiori!

Prendiamo il Prelude di Agharta e analizziamo lo schema di gioco: la prima mossa spetta a Henderson, Lucas e Mtume, che iniziano funkeggiando in libertà ma tenendo bene in mente la visione fuomosa del Godfather of Soul che campeggia sulla copertina di The Payback, uscito pochi mesi prima: poi il sintetizzatore spaziale di Cosey ci introduce Mastro Davis e la sua tromba pungente, intanto la sezione ritmica non si ferma un secondo, va e va incessante fino ad un microstop nel quale si inserisce furtivo un immenso Sonny Fortune al sax; quando questi si acquieta ritornano insieme Cosey e Lucas e qui davvero sembra di vedere Sun Ra e Jimi che facendosi occhiolino calano insieme la carta vincente. Da qui in poi la vittoria è assicurata, non resta che gestire la partita e infatti verso il minuto 17 ci si diverte anche con un riffettino funky, tappeto ideale per il ritorno dell’elettrica tromba di M.D. che si sposa alla meraviglia prima con il lavoro di Mtume e poi con quello di Lucas/Cosey. C’è ancora spazio per far divertire Henderson manco fosse Bootsy Collins e poi via di jam fino alla fine dei 32 minuti di questo Preludio! Le successive mani di gioco riprendono questo schema e lo scompongono e ricompongono a piacimento.

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E’ così nell’ultima partita giocata negli anni ’70, questo squadrone mischia tutto ciò che lo stesso Miles Davis aveva contribuito pesantemente a generare, cioè la fusion, il funkyjazz e il prog, con altra roba ancora, la psichedelia, il funk duro e puro del padrino e ne tira fuori una musica che in un sol colpo scavalca i Parliament/Funkadelic e tutto il P-Funk ma anche gente come Bill Laswell, Praxis e compagnia, puntando dritto nello spazio. Diciamo una stazione orbitante dove si balla e ci si diverte; molto corpo e molta mente.

Un’ultima partita coi controcoglioni.