Tutti pazzi per il Lorke

Che sia curda o armena ancora non sono riuscito a capirlo, ma ciò che credo di aver scoperto con assoluta convinzione è che da quelle parti amano parecchio la canzone Lorke (o Lorke Lorke a seconda dei casi). Penso sia per queste popolazioni una specie di mega-evergreen tipo ‘O sole mio + Nel blu dipinto di blu.

E’ andata così: stavo buttando parole a caso nel motore di ricerca di You Tube; ho quindi iniziato a seguire una linea che mi ha condotto ad alcuni cantanti turchi degli anni ’70 e ’80 e infine è saltata fuori lei: Lorke!

Questa dovrebbe essere, se ho intuito bene, una versione più fedelmente folk del pezzo, che però attenzione! si chiude con una coda di chitarra elettrica dal magistrale sapore classic-rock con tocco d’arabia. Inoltre si avvalora dell’interpretazione di quello che potrebbe essere un cantante di fama e spessore in patria (lo si può dedurre dai diversi video che si possono trovare di lui, anche datati). E già qui mi stavo perdendo in quei magnifici meandri a noi tanto cari, dove il kitsch (involontario) regna sovrano.

Ma questo video mi ha riportato sulla retta via:

un’amabile banda, presumibilmente zingaresca, di strani musici con pastore panzone che si dimena, cosa chiedere di più?

Da lì in poi sono state un’paio d’ore di Lorke tra versioni di tutti i tipi; alcune delle quali avrebbero potuto vincere addirittura l’Eurovision Song Contest se il Kurdistan fosse stato un paese europeo. Ma sono sicuro chiederebbero un’annessione solo per poter cantare la loro canzone al mega festivalone della kitsch music.

Segnalo ancora la versione di questa cantante che si chiama come la nota marca d’abbigliamento in un programma stile top of the pops e questa versione dance da classifica di un simil gigi d’agostino.

 

Volutamente per ultima ho lasciato la versione che più mi è piaciuta: base elettronica, tastierone kasio a palla e voci beduine; il tutto ovviamente riconducibile all’indiscusso Maestro Omar.

Un grosso difetto, lo so, è che il brano si interrompe sul finale, ma ho voluto citarlo perché da qui ho iniziato ad avventurarmi nel mondo di quest’altro grande artista: Naser (o Nasir) Rezazi, con nuovo profluvio di perle. Buona ricerca anche a voi e viva Lorke, qualunque cosa essa sia.

 

Unoverdoselungaseiore

tutti vi ricordate dell’ulisse di joyce vero quel memorabile testo scritto senza punti e virgole che doveva rappresentare un intero flusso di coscienza dell’autore e probabilmente vi starete già rendono conto che citandolo sto anche provando ad adottarne lo stile e certamente vi state chiedendo il perché il perché è semplice credo di aver trovato un degno parallelismo tra quell’opera novecentesca e quest’altra duemilesca che ho ascoltato di recente un flusso di coscienza in musica musica non qualsiasi ovviamente ma un vero mostro catalizzatore un rigurgito bavoso e ultracomprensivo di quarant’anni di musica psichedelica la treccani del trastullorock qualcosa che potremmo definire il trip definitivo ma saremmo ancora troppo lontani dalla realtà dei fatti una bombazza che mi ha sconquassato le cervella che mi ha fatto vomitare di gioia e canticchiare per la pena di chi mi era vicino il mantra i found a star on the ground uno sconquasso di sei ore sei che mi ha ricordato quando ancora avevo coscienza di me tutto il krautrock che ho amato alla follia tutti i grateful dead live della storia ma anche gli animal collective un concerto grandioso degli akron family dove mi ruppi la testa e mille altri rivoli orgiastici metteteci che il packaging di questo mostro è assolutamente all’altezza del contenuto con un giochino popart per flasharsi durante l’ascolto che durante le sei ore vengono letti dal gruppo ah già non ho detto che sto parlando dei flaming lips tutti i nomi di coloro che hanno comprato sto gioiello da collezione dannato me che non lo sapevo tipo centinai di nomi letti e metteteci anche che oltre a questo satanasso sonoro ci sono anche altre due canzoncine psichedeliche tutt’altro che riempitivi e potete capire perché sto a tentare di dirvi di fare sta megafollia che ho testato sulla mia psiche benedico ogni singolo neurone morto vaffanculo

Quattro sax in padella: Pharoah Sanders, Joe Henderson, Grover Washington Jr e Jan Garbarek

[in foto la mia adorata prugna sassofonista]

Non so voi, ma a me il sax piace parecchio. Il suono che emette lo considero di per se stesso tra i migliori di tutta la strumentazione musicale acustica. Se poi si considera che questo strumento a fiato è stato usato con straordinari risultati in generi diversi ne si può apprezzare anche la versatilità oltre che la passionalità intrinseca.

Riflettendo su ciò mi sono deciso ad approfondire la storia di quattro sassofonisti che, in tempi diversi della mia vita, ho apprezzato, se pur con dedizione diversa.

Il primo di questa piccola serie è Pharoah Sanders, sassofonista jazz di indubbia fama, che deve il suo nome a un appellativo datogli dalla divinità musicale Sun Ra; la fama (bè insomma quella che per noi di GB è fama: quel paio di gradini oltre il “faccio un disco solo per i cazzi miei”) gli arrise dalla metà degli anni ’60 prima suonando con Coltrane e poi con l’album Karma del 1969, la cui The Creator Has A Master Plan è sempre il suo pezzo più citato.

Da qui in poi il suo stile sarà quasi sempre etno-misticheggiante, come piace a noi.

Dello stesso anno è un altro disco straordinario, Jewels Of Thought, la cui prima facciata continua a darmi i brividi all’ennesimo ascolto:

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/01-Hum-Allah-Hum-Allah-Hum-Allah.mp3]

Pharoah Sanders: Hum-Allah-Hum-Allah-Hum-Allah

Il secondo sassofonista che mi è tornato alla memoria fu tale Joe Henderson, scomparso undici anni orsono. Anche lui in realtà molto conosciuto in ambito jazz, ha suonato con i grandi, da Davis a Hancock.

A me piace ricordarlo per il brano con il quale l’ho scoperto, in questa bella compilation editata da Four Tet.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/09-Joe-Henderson-Earth.mp3]

Joe Henderson: Earth

Il terzo saltato in padella è Grover Washington Jr, morto anch’esso più di un decennio fa. Dei tre è probabilmente quello meno giustificato a comparire su questo blog. Certamente molto “piacione”, è considerato tra gli inventori dello smooth jazz, quella roba che forse oggi fa davvero un po’ troppo schifo (tranne alcuni casi), cioè una fusion più funkeggiante e pop. Suggerisco l’ascolto dei suoi album tra il ’74 e il ’78, il suo periodo migliore.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/09-Grover-Washington-Jr.-Hydra.mp3]

Grover Washington Jr: Hydra

Infine Jan Garbarek, compositore oltre che sassofonista norvegese di cui ho già fatto un piccolo cenno nel mio precedente articolo. Appassionatomi alla benemerita etichetta tedesca ECM tra i tanti artisti scoperti due in particolare hanno meritato il mio apprezzamento ed amore: Stephan Micus (divinità di cui certamente parlerò in futuro) e appunto Jan.

Dopo più di una dozzina di suoi dischi ascoltati posso dire che, se vi piace questo genere (jazz mistico e ambientale) con lui state a cavallo! perché ne ha sperimentato tutte le possibili declinazioni: dal più “classico” dei primi anni ’70 insieme ad Art Lande, Keith Jarrett o Bobo Stenson;

a quello più indianeggiante con Shankar (quello con la L. prima del nome, che ebbe un disco prodotto anche da Zappa) o mediorientaleggiante con Zakir Hussain e Ustad Fateh Ali Khan; o quello più propriamente ambient etno-mistico che l’ha reso (anche lui sì) famoso con gli album Rites (1999) e Officium (1994).

Ancora due chicche: la colonna sonora composta con Eleni Karaindrou per il film O’Melissokomos di Angelopoulos; e l’album Rosensfole (Medieval Songs From Norway) con la incredibile voce nordica di Agnes Buen Garnås, poi anche presente nel suo Group.

Per finire, quindi, due sue “canzoni” da ascoltare se si vogliono avere visioni religiose o scalare montagne sacre:

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/02-Jan-Garbarek-Group-Psalm.mp3]

Jan Garbarek Group: Psalm

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/07-Jan-Garbarek-His-Eyes-Where-Suns.mp3]

Jan Garbarek: His Eyes Were Suns

Bignami per la Liberazione della Musica Elettronica Popolare Preistorica

Credo di avere una predilezione particolare per i primi sconosciuti musicisti elettronici “pop”.

Contrariamente agli innovatori della musica d’avanguardia, che ne aumentavano la complessità chiudendosi in una sperimentazione troppo intellettuale e poco intuitiva, loro han provato piuttosto a “giocare” con le nuove possibiltà del nastro magnetico e dei primi enormi sintetizzatori, quasi del tutto isolati (per fortuna esistevano i laboratori radiotelevisivi) e contro tutto e tutti: le tecnologie nei ’50 e ’60 erano ancora primitive e sia il pubblico colto che la cultura di massa non erano pronti a farsi intrattenere da sonorità che non erano né seriose né familiari.

Se le avanguardie colte, pur avendo ispirato generi come il glitch o l’industrial, non sono forse riuscite di per sé a raccontare l’umanità del futuro, questi personaggi non solo l’hanno prevista, ma sembravano essi stessi arrivati dal futuro, o perlomeno da una dimensione parallela.

Ma prima mettetevi composti, cominciamo con una piccola cronostoria (se cercate qualcosa in più sul lato tecnico, provate qui).

Alcuni dei primi strumenti elettronici furono: il gigantesco Thelarmonium (che ispirò anche l’organo Hammond del 1935), costruito nel 1897 o giù di lì, e di cui purtroppo non ci sono registrazioni dell’epoca, il Theremin (1919), l’Onde Martenot (1928) e il Trautonium (1929), ma non riuscirono più di tanto a rivoluzionare il mondo della musica. Il curiosissimo ma un po’ arido Theremin e l’Onde Martenot furono comunque abbastanza considerati da Edgar Varese durante gli anni ’30.

In tanti avranno sentito parlare del futurista Luigi Russolo, in realtà precursore della musica noise. I suoi Intonarumori (1913) erano infatti apparecchi meccanici che generavano rumori acustici (non armonici); si trattava insomma sempre di far vibrare dei materiali come corde o lastre metalliche, etc.

John Cage nel 1939 inserì il suono di due grammofoni amplificati in una composizione con strumenti più tradizionali, il risultato fu Imaginary Landscape #1.

Pare però che il primo a conservare fino ai giorni nostri le proprie manipolazioni di musica interamente registrata non fu Pierre Schaeffer, ma un egiziano (i lettori accaniti di Guylum Bardot ne saranno soddisfatti!).

Halim El-Dabh compose Wire Recorder Piece (nel 1944, a 23 anni), modificando grazie a un registratore a filo preso in prestito da una Radio del Cairo (che al posto del nastro magnetico aveva ancora appunto un filo d’acciaio) i canti di un’antica cerimonia egiziana Zar, che pare servisse a curare malattie mentali. Niente male.

Il primo prototipo di mangianastri è stato il britannico Blattnerphone (1929 o 1930), seguito dal magnetofono tedesco della AEG (1935).

La musica concreta di Pierre Schaeffer nacque ufficialmente nel 1948 (erano comunque almeno 5 anni che ci rimuginava), ma nel Club d’Essai della Radiodiffusion-Télévision Française furono utilizzati generalmente grammofoni, filtri, e poi microfoni per registrare il tutto. Si servirono del nastro magnetico solo qualche anno dopo.
Karlheinz Stockhausen compose il suo primo pezzo di musica elettroacustica, Etude(1952), proprio lì, con il Phonogène, uno strumento costruito da Schaeffer (nella foto) che funzionava coi nastri ma aveva persino una tastiera di un’ottava. Comunque pare che il pezzo gli facesse schifo.

L’anno prima, sempre alla RTF, Pierre Henry aveva inciso Le microphone bien temperé (sempre per nastro), forse la composizione più completa nel suo genere, almeno di questi esordi.

In America invece, sempre nel 1952, al MoMA di New York, Otto Luening e Vladimir Ussachevsky presentavano il primo concerto di musica per nastro magnetico. In Low Speed, ad esempio, c’è un flauto messo in feedback e non so che altro, mi ha fatto venire in mente un po’ i Throbbing Gristle.

A Colonia anche Herbert Eimert e Robert Beyer sperimentavano sul nastro magnetico negli studi della Nordwestdeutscher Rundfunk in cui fu poi di casa anche Stockhausen. Il loro Klangstudies II (sempre del 1952), pur non essendo ancora melodico, ha un suono più pulito e sintetico, merito del Melochord, strumento a tastiera costruito nel 1947 da Harald Bode, e di un oscillatore che generava onde sinusoidali.

Ma tutto ciò di cui si è parlato finora è forse più accostabile alla sperimentazione tecnica – e quindi alla fascinazione intellettuale – che all’ascolto vero e proprio.
Si può insomma essere “profondi” anche nell’immediatezza: se l’immaginazione non ha un appiglio un poco più intuitivo è difficile arrivare a provare una qualche impressione sentimentale.

Proviamo dunque a concentrarci sugli albori della melodia nella musica elettronica.

A rigor di logica le prime melodie elettroniche – perlomeno quelle incise da qualche parte – non possono che essere nate grazie ai jingles delle reti televisive. Ma a volerci soffermare su quelli che sono i primi brani completi del genere, che superino insomma 1 o 2 minuti, a spuntare è sempre lui: Raymond Scott.

Il primo esempio della musica che nei ’60 lo farà grande (ma per pochi), è The Rhythm Modulator, pezzo ancora un po’ scarno, composto tra il 1955 e il 1957, nei suoi studi di Manhattan, dove tra le varie cose inventò il Clavivox, grazie anche alla conoscenza di Robert Moog (il cui famosissimo synth vedrà luce nel 1964, ma non distraiamoci). Un altro brano che trovate nella raccolta Manhattan Research Inc. è Lightworks, composto tra il 1960 e il 1963, forse uno dei più “moderni dentro”.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/230-lightworks-instrumental.mp3]
Raymond Scott – Lightworks

Meanwhile, in Olanda, all’interno dei Laboratori della Philips si faceva la storia, grazie a Tom Dissevelt, Dick Raaymakers (nome in codice Kid Baltan) ed Henk Badings, quest’ultimo guarda caso nato a Java quando era colonia olandese, sempre per la gioia dei lettori più stramboidi (sarà anche per questo che Dissevelt ha scritto il primo pezzo elettronico ispirato al gamelan nel 1963?). In questo video potete vedere i primi due che tagliano e incollano con lo scotch i nastri in cui venivano registrate le forme d’onda generate da macchinari poco comprensibili.

Popular Electronics: Early Dutch electronic music from Philips Research Laboratories, 1956-1963 è un box di 4 cd uscito nel 2004 per l’etichetta olandese Basta (ma speriamo invece continui), e raccoglie i brani di cui sto per parlare e altro ancora.
Badings ha musicato un balletto teatrale messo in scena all’Holland Festival nel 1956, Cain and Abel. Lo stile è ancora caotico e a volte frammentario, ma non ostico come certa elettroacustica o acusmatica (ricordiamo che per acusmatici si intendono i suoni derivati sempre da registrazioni concrete ma diventati totalmente avulsi e astratti); l’introduzione e il primo episodio hanno una “piacevole” immediatezza d’ascolto nella loro tensione da psichedelia horror.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/1-02-henk-badings-kain-en-abel-first-episode-conflict-conclusion-transition.mp3]
Henk Badings – Cain and Abel, first episode

Il primo 33 giri di musica elettronica pop (anche se i brani con un vero motivetto pop sono la metà) ha avuto due versioni leggermente diverse, non solo per i nomi dei titoli: la Philips ha fatto uscire The Fascinating World Of Electronic Music a nome Tom Dissevelt & Kid Baltan nel 1959, diventato nel 1962 Elektrosonics: Electronic Music; se vi interessa tra le varie ristampe pare ne sia uscita un’altra quest’anno in CD per la Omni. I due hanno curato comunque brani diversi: il brano più antico (uscito come 45 giri nel 1957) è Song of The Second Moon di Baltan, ma a spiccare è Orbit Aurora, creata da Dissevelt nel 1958 col nome originario di Syncopation. Sembra di stare all’interno di una fiaba futuristica, o di qualche pianeta parallelo.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/06-orbit-aurora.mp3]
Tom Dissevelt – Orbit Aurora

L’aneddoto più bello riguarda comunque questo tizio qui sopra, Raaymakers, che era solito condurre un’esistenza riparata, dedicandosi alle sue apparecchiature; nel 1965 il suo agente lo chiamò per proporgli di fare la colonna sonora di un film di fantascienza di un giovane regista… il cui nome non gli disse nulla, e poi era stanco, e non aveva tempo… peccato, Kubrick ci rimase male.
La loro musica è rimasta così a prendere polvere, anche se pure artisti come David Bowie han dichiarato di esserne rimasti folgorati.

Due cose però sono mancate a queste melodie: ritmo e canto, e qualcuno qui rimpiangerà i Kraftwerk.
I tedeschi, infatti, se dal 1970 si erano ispirati alle musiche elettroniche colte mischiandole al rock (Kluster e Tangerine Dream facevano già a meno del rock, ma di certo non erano pop), poi via via si erano affrancati da elementi acustici o soltanto elettrici, arrivando prima con Autobahn (1974) e poi maggiormente con Radioactivity (1975), a unire alle melodie elettroniche ritmi sintetici e canto.

Di canzoni con musica elettronica ce n’erano già state molte: ci avevano pensato per primi i newyorkesi Silver Apples (1968) e Fred Weinberg (sempre nel 1968, con la beatlesiana Animosity), e gli White Noise (1969) di Delia Derbyshire, autrice di musiche ed effetti sonori al Radiophonic Workshop della BBC dal 1962; ma i suoni elettronici non coprivano tutte le componenti della loro psichedelia.

Una menzione particolare voglio darla a Cecil Leuter, il cui Pop Electronique n°2 (1969), pur non avendo cantato nè drum machine, sembra una versione per Moog di Fatboy Slim, o qualcosa del genere.

In realtà dei primi pionieri in fatto di canzoni interamente elettroniche, anche se con ritmi un po’ grezzi, Guylum Bardot ha già parlato altrove, con Mort Garson e il suo Wozard of Iz (1969) e soprattutto il Bruce Haack di Electric Lucifer (1970). Il disco di Garson i suoi anni li sente un po’ troppo, mentre Haack, anche se sempre in stile psichedelico, si difende molto meglio (c’è persino il vocoder; ma sentite la strumentale Supernova, pare uscita ieri).

Concludiamo allora con un personaggio ancor più strampalato, pioniere per caso di un pop elettronico quasi senza tempo.

Hans Edler, adesso musicista mainstream in patria (i suoi altri video su youtube fanno 30.000 visualizzazioni), prese nel 1969 (a 23 anni) delle lezioni all’Elektron Musik Studion di Stoccolma, centro di sperimentazione attivo dal 1960, e lì, su quei grossi sintetizzatori incastonati nel mogano, ebbe non si sa come la possibilità di registrarci un disco due anni dopo (speriamo non grazie a comportamenti lascivi, il fatto è che quella copertina ci inquieta un po’).


Elektron Kukéso (500 visualizzazioni) è un disco allo stesso tempo naif e sorprendente: nelle quattro canzoni sembra di sentire la voce di un Brain Eno sbronzo. Il resto sono più che altro nenie liturgiche (buone per un film di Bergman).

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2012/10/07-hans-edler-det.mp3]
Hans Edler – säg vad Är det

Durante le canzoni vere e proprie la musica è un misto di tastierine bambinesche, accordi tonali, e di frastuoni sintetici (un intruglio di avanguardia e pop da non credere); mentre sullo sfondo delle cantilene ci sono soltanto i rumorismi e i blip blop da computer impazzito. L’EMS di Stoccolma era rinomato infatti per gli studi sulla composizione programmata al computer.

[audio:http://www.guylumbardot.com/wp-content/uploads/2012/10/02-hans-edler-langt-bort.mp3]
Hans Edler – långt bort

Per chiudere il disco si permette pure uno strumentale, sempre funebre e pieno di Bzzzz, Shhhhh e Ktttrrr. Di ritmiche comunque neanche l’ombra, ma possiamo perdonarglielo, era giusto lasciare qualcosa da fare ai Kraftwerk.

Il triangolo sì: Robin Guthrie, Harold Budd e John Foxx

In questa orripilante foto possiamo ammirare, a partire da sinistra: 1) Robin Guthrie, co-fondatore dei Cocteau Twins; 2) Harold Budd, compositore; 3) un russo ubriaco vestito peggio di Paolo Limiti, non meglio identificato; 4) John Foxx, ex leader degli Ultravox

L’articolo si concentrerà però su soltanto tre di questi quattro. Chi sarà l’escluso?

Scopritelo.

Ménage à trois è un’espressione francese indicante una relazione, non necessariamente di natura sessuale, ma in ogni caso di tipo sentimentale, fra tre persone (wiki). E se queste tre persone sono John Foxx, Harold Budd e Robin Guthrie le cose si fanno parecchio interessanti, non trovate?

John era, come molti sapranno, l’anima originaria degli Ultravox, i primi, quelli col ! alla fine del nome, messo lì per citare (ed imitare) i mostri tedeschi Neu! le cui sonorità, mischiate al Bowie berlinese e non e ai Kraftwerk davano base al loro post-punk. In effetti tra i primi new-wavers in circolazione.

Ma andiamo avanti: ad un certo punto John si annoia, lascia gli Ultravox, che proprio allora faranno il botto guidati da Midge Ure, e pubblica qualche album da solista, quasi tutti fiaschi assoluti, poi scompare (classica parabola verso l’oblio si pensava, ed invece…)

Harold Budd è un personaggio assai riservato, non è che si sappia molto di lui, comunque è un diplomato in composizione fin dagli anni ’60 e citando sempre wiki “crebbe nel deserto del Mojave e fu ispirato in giovane età dal rumore generato dal soffiare del vento attraverso i cavi del telefono”; mica noccioline!

Diventa famoso grazie all’onnipresente Brian Eno che gli produce con la Obscure un album davvero bello, dove potete trovare la migliore musica per addormentarsi come infanti dopo il biberon.

Da li in poi diventa il maestro riconosciuto dell’ambient più “classica”. Da segnalare un altro suo album magnifico, del 2004, simpatica boutade, in quanto doveva essere il disco con il quale il maestro annunciava la sua uscita di scena, cosa che poi non avverrà. Tra i massimi album ambient di sempre.

Robin Guthrie è tra i membri fondatori dei Cocteau Twins, e non so voi, ma solo per questo la meriterebbe una statua in un qualche paese in via di sviluppo. Alfieri di quello che chiameranno dream-pop, negli anni ’80 erano davvero forti, e già lì un primo contatto col maestro Budd.

Gli incontri:

Dicevamo dell’oblio di Foxx, dal quale incredibilmente l’ex-cyborg new-wave uscì nel 1997 per amore dell’ambient music più gotica-gregoriana (per intenderci, quella che fece la fortuna, pochi anni prima, di Jan Garbarek). L’album che segna il suo ritorno si chiama Cathedral Oceans.

In realtà la sua parte robotica John non l’abbandonerà affatto, e come un moderno dr. jakyll/mr. hide da qui in poi continuerà ad approfondire queste sue due anime con risultati mai raggiunti neppure con gli Ultravox! Ma tornando a ciò che ci interessa, è del 2003 l’incontro tra Foxx e Budd, così prolifico da generare due album pubblicati nello stesso anno: Translucence e Drift Music. L’ambient più pura che potete immaginare.

Diciamocelo, da lacrimoni:

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/2-12-You-Again1.mp3]

Harold Budd & John Foxx – You Again

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/3-14-Underwater-Flowers.mp3]

Harold Budd & John Foxx – Underwater Flowers

Il Maestro Budd invece ri-incontrerà il geniaccio Guthrie per la realizzazione di una colonna sonora; è il 2005, il film è Mysterious Skin.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/10/01-Neils-Theme.mp3]

Robin Guthrie & Harold Budd – Neil’s Theme

Nel 2009 il triangolo si completa con l’uscita di Mirrorball, album a nome Foxx/Guthrie. Un viaggio in altri mondi, ma forse sarebbe meglio dire nelle profondità oceaniche:

[e con questo post diamo il benvenuto all’amico mckenzie]

Aborigeni e marziani

Dopo le dritte su Francis Bebey provo a molestare le vostre orecchie con uno spazio dedicato ai dischi dimenticati forse anche da chi li ha fatti. Chiediamocene il perché tutti insieme.

The 13th Tribe – Ping Pong Anthropology (1992)

Nonostante lo humour del titolo e della copertina, i componenti di questo progetto berlinese hanno l’aria di quelli che un po’ ci credono, dato che tengono a sottolineare nelle note del disco che non troverete traccia di elettronica o sampling. E non c’è nemmeno il didgeridoo, anche se sembrerebbe. Invece quei suoni lì provengono da flauti e clarinetti di plexiglass e PVC che Werner Durand si è costruito da sé dimenticandosi (di proposito) di farci dei fori, e che suona in un continuo botta e risposta assieme al norvegese Erik Balke (i due manco a dirlo sono studiosi, di musica indiana e iraniana il primo, di africana e balinese il secondo).
Da non cultore degli strumenti a fiato ringrazio anche la presenza della brasiliana Silvia Ocougne, che con la sua chitarra elettrica pizzicata e suonata col martelletto mette in mezzo un po’ di colpi ad effetto. Completano il campo da gioco varie percussioni, tra cui ossa e lattine.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/the-13th-tribe-03-khazar.mp3]
The 13th Tribe – Khazar

Organizzassero delle olimpiadi aborigene sarebbe il giusto background per infondere un po’ di sacro agonismo durante le competizioni di cannibalismo, circoncisione, lancio del boomerang e tiro dell’anello al naso. C’è anche la cerimonia (funebre?) di chiusura.

Un simpaticone su YouTube ha pensato bene di caricare un loro brano sovrapponendo alle racchette della cover una pallina in movimento (a dire il vero pare più una luna in miniatura). Se la osservate per più di 30 secondi finite sotto ipnosi, fate attenzione bambini.

Rimanendo nello stesso ambito segnalo un altro gruppo, stavolta formato nella San Francisco della New Wave, che ha provato ad inventarsi un’immaginaria world music, in questo caso ibridando però gamelan e musica elettronica.

Gli Other Music suonano scale microtonali che seguono la just intonation; cioè, provando a spiegarlo a un cane come me, se ogni metallofono che fa parte di un’orchestra gamelan è già di suo uno strumento microtonale, perché non ha ottave da 12 intervalli come gli strumenti più comuni, quelli che si son costruiti loro nello specifico ne hanno 14 diseguali (cioé non della stessa lunghezza) per ottava, e ognuna delle 14 note ha una frequenza che risulta semplicemente da frazioni di numeri interi, un po’ come voleva il buon Pitagora (che ora non posso evitare di immaginare con la faccia di Terry Riley). Combinandoli a un synth (il Prophet V) e ad altra roba tra cui sax, corno, violoncello, chitarra elettrica, e, nella traccia qui sotto, a un hammered dulcimer (cioè il salterio, chiamato in oriente santur), il risultato unico, a volte marziano più che indonesiano, a volte un po’ jazzy (l’incipit mi ricorda i Residents), è stato Incidents Out of Context (1983).

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/05-The-Spirit-Is-Willing.mp3]
Other Music – The Spirit Is Willing

Francis Bebey

Artista, musicista e scrittore del Camerun, abbastanza noto nel suo paese e in Francia, Francis Bebey è stato autore di un curioso etno-jazz elettronico. Negli anni 70 si è procurato un sintetizzatore e una drum machine e nei decenni successivi ha rilasciato una ventina di dischi dai suoni magici e insoliti. Ad esempio in questo bellissimo Akwaaba del 1985 aggiunge il basso elettrico a strumenti più tradizionali, come la Sanza (magari l’avete già sentita nominare come Mbira). Il risultato è magnifico e bizzarro. In “Bissau” passa senza soluzione di continuità dalla scanzonatezza alla Oronzo Canà che va in Brasile a comprare Aristoteles al dramma abissale della voce che alla fine del ritornello si incanta in un inaspettato urlo quasi harsh noise:

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/02.-Bissau.mp3]
Francis Bebey – Bissau


Il disco è stato ristampato dalla tedesca Trikont con un altro titolo, African Moonlight. Molto consigliati anche altri pezzi dalla bellezza indescrivibile come Sassandra e Tumu Pakara.

[audio:http://www.harrr.org/guylumbardot/wp-content/uploads/2012/09/04.-Tumu-Pakara.mp3]
Francis Bebey – Tumu Pakara

Recentemente poi è uscita questa raccolta “African Electronic Music 1975-1982”, ascoltabile dal sito della Bord Bad Records.

Francis Bebey (1929/2001)

[con questo post diamo il benvenuto all’amico mongodrone, che condivide con noi la passione per esotismi, elettronica esoterica e oscurità di vario genere. finegarten]

Ma quale Sziget o Primavera Sound: Eurovision 2010, il festival che nessuno (o quasi) ha il coraggio di seguire

La cinquantacinquesima edizione dell’Eurovision/Eurofestival di Oslo non si tiene veramente a Oslo; per ragioni di spazio è stata spostata in un paesello vicino. Si farebbe quindi meglio a parlare non di Eurovision Oslo 2010, bensì di Eurovision Fornebu 2010, ma tant’è. La manifestazione canora più bizzarra e seguita del mondo, considerata un «natale gay di primavera» dalla comunità omosessuale internazionale per via dell’overdose di camp e glam che ogni anno trasuda dai teleschermi, ci ha abituati a ben altre stranezze.

Stavolta l’età media dei concorrenti si distacca solo di un’incollatura dalla fase pre-puberale: i più sono nati tra il 1987 e il 1992 e provengono da reality show nazionali, quasi sempre versioni locali di “Operazione trionfo”, “American idol” e “X-Factor”.

I bookmakers inglesi hanno già incoronato vincitrice tale Safura, azerbajana, che canta l’orrenda “Drip Drop”. Il suo paese si è peraltro distinto per eleganza e correttezza istituzionale: pare che nel 2009 la TV dell’Azerbaijan abbia censurato il numero di telefono per tele-votare la cantante dell’Armenia, e abbia anche mandato in onda per ben tre volte una foto del territorio di Nagorno Karabakh, conteso tra le due etnie, al solo fine di aizzare gli animi infuocati delle genti di montagna.

La seconda favorita del festival è la tedesca Lena, strapponcina del 1991 che canta in inglese – ma con l’accento di Hans Landa – un’anonima “Satellite”. I bookmakers la danno a 3,5.

In gara anche Goran Bregovic (sissignore, Goran Bregovic) con una canzone cantata dal 23enne serbo Milan Stankovic, un parappappà balcanico – tanto per cambiare – dedicato ai balcani e intitolato “Ovo je Balkan” (Questi sono i balcani). Il ritornello fa «Bàlkan! Bàlkan! Come on!» È la fantasia al potere.

Si segnala inoltre, ma solo per la montagna di facili battute che gli stanno piovendo addosso da tutto il pianeta, il concorrente spagnolo Daniel Diges, proveniente da “High school musical”, autore della trista ballata “Algo pequenito”, ovvero “Qualcosa di piccolo”. Ecco, ci siamo capiti.

Alyosha, la cantante ucraina, rimarrà invece nella memoria collettiva per la sua somiglianza impressionante col personaggio della prostituta che ingoia del romanzo “Hanno tutti ragione” di Paolo Sorrentino. L’Italia, convitato di pietra all’Eurofestival da ben 13 anni a causa della cieca ostinazione dei vertici RAI, è in gara attraverso un certo Christian Leuzzi, autore della musica di “Shine”, cantata da Sopho Nizharadze in rappresentanza della Georgia.

La serata finale del festival andrà in onda domani sabato 28 maggio 2010 dalle 20.30 su RadioStreet (ascoltabile in streaming su www.radiostreet.it), con la radiocronaca di un certo Dario Morelli, che poi sarei io.

Alexander Rybak – Fairytale, vincitore Eurovision 2009